In pochi hanno potuto vedere i grandi pannelli e gli altri sparuti quadri dipinti da Patarini prima del 1999. E quei pochi, probabilmente, li hanno dimenticati.
La sua carriera artistica comincia pubblicamente nella primavera del 2001, quando, nella suggestiva cornice della basilica di San Celso, con un allestimento sobrio ed evocativo, presenta un esiguo numero di opere realizzate su tavola e appese su grandi croci, con lunghe scalette di legno ad esse accostate, mentre al centro della sala campeggia un cubo di un metro per un metro, con un dipinto per ogni faccia raffigurante un “dannato” ispirato a figure di William Blake: si trattava di una serie di opere intense e compostamente drammatiche dedicate al tema della Passione e all’Inferno dipinte precedentemente, ovvero proprio nel 1999 e nel 2000. Di qui in poi, nelle mostre che seguiranno, verranno esposte opere di cicli successivi, che testimonieranno gli esiti di una ricerca espressiva artistica e intellettuale inquieta, onnivora, oscillante tra Neo-Espressionismo, Pop-Art, Pittura Informale e l’influsso di altre avanguardie storiche, alla ricerca, forse, di una sintesi di linguaggi e orizzonti culturali diversi.
Ma per trovare il bandolo della matassa (o almeno un bandolo) occorre fare un passo indietro, a quel 1999: primo vero spartiacque (un secondo è il 2003) nella produzione di questo artista eclettico.
Negli anni a ridosso del 1999 le prime opere di Patarini (che, dopo un’adolescenza dedicata alla passione per il disegno e una lunga latenza -un decennio circa- in cui si è votato invece alla scrittura e al teatro, ha ripreso a dipingere con velleità artistiche intorno ai trent’anni -tra il 1996 e il 1997-) sono grandi pannelli monocromi (blu) che raffigurano donne senza volto sospese nel cielo, manichini, cieli notturni con la luna: una grande, lucida, placida razionalità si sprigiona non solo dai soggetti trattati e dalla loro valenza simbolica (a tratti vagamente metafisica), ma anche dalla predominanza di un disegno lineare e semplice e dal colore unico prescelto: il blu. Si tratta di opere decisamente, spiccatamente “apollinee”: nessuna emozione, ogni cosa sotto controllo. Ogni segno (ogni sogno) sotto il controllo della ragione.
Poi, nel 1999, compaiono crocefissioni e deposizioni. Anche in questo caso la linearità del disegno e la monocromìa del trattamento pittorico denotano un forte controllo della ragione: le figure appaiono perfettamente iscritte, quasi imprigionate nei pannelli rettangolari su cui sono dipinte, emergono dal buio che le circonda. La luce e l’elementare geometria degli assi cartesiani definiscono queste dolenti figure di un Uomo inchiodato alla croce o da essa deposto. Definiscono e imprigionano.
Non c’è più la serenità lunare dei quadri precedenti. E la figura umana appare costretta, oppressa.
Questo tema (allegorico) della figura umana costretta, imprigionata entro lo spazio angusto delimitato dagli assi cartesiani di un quadrato o di un rettangolo (fuor di metafora: dell’uomo prigioniero della ragione) esplode e si rende pienamente manifesto nella serie denominata “I dannati di William Blake”. E’ qui che avviene il primo significativo scarto, e si apre un nuovo orizzonte: Patarini si libera del disegno. Le figure infatti sono definite direttamente dalle pennellate, dal gesto pittorico, senza alcun disegno preparatorio: la passione, la sofferenza, il senso di costrizione viene espresso direttamente dalla gestualità (emotiva) dell’artista. La sua pittura diviene “dionisiaca”.
Tuttavia la razionalità non viene estromessa del tutto dal processo creativo, anzi. Anche in tutte le opere di Patarini successive al 1999 appare forte e decisa la progettualità. Talvolta addirittura “programmatica”. Ma la sua azione è circoscritta al momento preparatorio, alla gestazione, che precede l’azione creativa.
Apollo (la ragione) circoscrive il campo di azione, delimita il territorio da invadere, esplorare, sceglie la musica, forse anche le coreografie da eseguire: ma alla fine è Dioniso che danza nel recinto di Apollo.
Guglielmo Nero
L’arte non è creazione
Come spesso Patarini ripete: “Ex nihilo nihil...” Dal nulla non scaturisce nulla.
L’arte non è creazione dal nulla, ma invenzione nel senso etimologico del termine (dal latino invenio, scopro, trovo) e trasformazione: sia materiale che spirituale.
Ciò che caratterizza il grado di originalità dell’opera è la composizione: il modo in cui gli elementi preesistenti di cui essa si compone vengono strutturati, messi in relazione tra loro.
La Pop Art ha giocato su questi semplici concetti di base, utilizzando non solo materiali e idee preesistenti, ma scegliendo quelli più “popolari”, queli più noti, conosciuti, visti e stravisti: icone laiche del mondo moderno occidentale. Da un diverso punto di vista la Pop Art si rifaceva alle geniali e spiazzanti “scoperte” di Duchamp e per altro verso dei Dadaisti.
Ma la comparsa sulla scena Pop di Arman ha fatto fare un balzo in avanti alla ricerca artistica lungo questa linea: utilizzare strumenti musicali fatti a pezzi, mobili bruciati, o tubetti di colore strizzati, significa introdurre (o forse semplicemente esplicitare) un nuovo rivoluzionario concetto nella pratica (e nella teoria) dell’Arte: quello della distruzione. Per “creare” occorre distruggere.
Non è poi affatto secondario il fatto che per fare opere d’arte non si utilizzino più oggetti o “icone” popolari, ma strumenti che già hanno a che fare con l’arte: strumenti musicali, pennelli, tubetti di colore. Oggetti decisamente più “colti” e raffinati dei barattoli di conserva “Campbell”. Già Mimmo Rotella aveva indicato la via realizzando decollage con manifesti di film: anche in questo caso oggetti che avevano a che fare con l’arte (quella cinematografica, nella fattispecie).
Sulla scia di questa linea di ricerca si pone la scelta di Virgilio Patarini di utilizzare pagine di libri fatti a pezzi per costruire le sue opere.
In questo caso tuttavia l’uso di libri fatti a pezzi, al di là delle implicazioni “pop” apre spiragli alla riflessione anche in altre direzioni: l’autore di queste opere “ex-libris”, infatti, è, oltre che un pittore, anche uno scrittore e un editore: cioè una persona che “fa libri” di mestiere (che li realizza sia “idealmente” che “materialmente”). Inoltre, come in più occasioni Patarini ha ribadito, i volumi “fatti a pezzi” sono sempre e comunque testi amatissimi dall’autore: letti, riletti, prediletti. Dietro ciò non è difficile scorgere risvolti palesemente psicoanalitici. L’autore dimostra un amore, per così dire, da “mantide religiosa”. L’amore, la passione per quei libri si rivela così violenta da risolversi, apparentemente nel suo contrario. Ammesso che l’odio sia il contrario dell’amore. E che distruggere sia una manifestazione di odio.
In questo caso tutto ciò parrebbe più simile a certe pratiche arcane in cui un guerriero divora il cuore del nemico ucciso (o dell’amico caduto in battaglia) per acquisirne il coraggio... Non a caso Patarini dichiara che nella realizzazione di questi suoi “ex-libris” egli cerca di rendere attraverso il quadro il senso e l’atmosfera globali del libro in questione fatto a pezzi. Come se l’opera letteraria distrutta potesse in qualche modo risorgere nell’opera pittorica. Come se il fatto stesso di averla fatta a pezzi e di averne i pezzi tra le mani provocasse nell’artista-biblioclasta una sorta di fenomeno di possessione tale da concedergli la facoltà mediatica di farla di nuovo esprimere. Inevitabile scorgere in tali idee echi lontani di miti orgiastici-dionisiaci, ma anche riminescenze cristiane-eucaristiche. Infondo il bravo cristiano che la domenica a messa si mette in fila e va a fare la comunione non fa altro che “mangiare” un pezzo del corpo di Cristo al fine di partecipare del carisma di quest’ultimo.
Altrettanto inevitabile constatare come l’azione materiale del fare a pezzi e ricostruire non sia altro che una metafora del normalissimo processo di fruizione di un’opera: ciascuno di noi, ad esempio, quando legge un libro lo fa “a pezzi” e lo ricostruisce nella sua mente, in una comune e banalissima dialettica tra analisi e sintesi che ha lo scopo di consentirci di appropriarci di qualcosa d’altri. E nel fare questo, inevitabilmente, ci mette del suo: interpreta.
Ma anche qui si cela un autentico paradosso: e il paradosso consiste nel tentare di risolvere “sincronicamente” con un quadro (ossia con un’opera che si fruìsce tutta intera nel medesimo istante) un’opera “diacronica” per eccellenza come può essere un romanzo o un testo teatrale, (che per essere fruìta ha bisogno di un tempo decisamente prolungato, sviluppandosi pagina dopo pagina, scena dopo scena).
In ogni caso questa azione artistica, culturale e dialettica, così complessa e ricca di possibili significati, azione di distruzione-ricostruzione-interpretazione in cui si distruggono libri per creare opere d’arte parrebbe avere una valenza decisamente catartica.
Una catarsi nel significato etimologico e ambivalente del termine: ossia una purificazione del e dal testo. Poichè il testo “letto, riletto e prediletto”, ossia investito di un forte connotato emotivo, vive (ri-vive) nell’animo dell’autore-lettore come se fosse una sua autentica, reale passione. Per questo è necessaria una purificazione. Un rito catartico. Per purificare quella passione nell’anima. E per purificare l’anima da quella passione. In un contesto in cui appare inesistente una linea di demarcazione tra la realtà e l’immaginazione. Tra la vita e l’arte.
Ancora una volta un paradosso.
Gugliemo Nero