" La materia accarezzata, usata, plasmata e obbligata. Un senso che affiora come foglie marcite in acque stagnanti, appena velato dalla superficie torbida eppure perfettamente intelliggibile. Se la materia cromatica mescolata alle malte e agli ossidi assume posizioni in cui il caso è solo uno dei protagonisti, esaminando l'opera di Patarini emerge una volontà rappresentativa che può essere considerata, in termini di profondità e purezza, alla stregua di una dottrina filosofica. "
Michele Govoni
Virgilio Patarini in mostra alla Rocca Viscontea di Lacchiarella
Tabula rasa. Scoperchiarne la superficie ed aprirla come un archeologo scava stratificazioni di segni umani celati dal terreno. Con questo approccio vorrei accostarmi al ciclo di Virgilio Patarini intitolato “Di ruggine e di luce”: con un processo inverso rispetto alla normale critica. Se, infatti, Italo Calvino nella prima delle sue Lezioni Americane (quella dedicata al tema della leggerezza) definisce l’approccio alla sua arte letteraria come una “sottrazione di peso”, così vorrei avvicinarmi alle opere di Patarini qui presentate utilizzando il medesimo principio: quello della sottrazione di peso. A questo punto mi si potrebbe obiettare che l’opera d’arte nasce per un’addizione di materia sul supporto, tanto da creare strati di materiale pittorico sul supporto vergine. La lettura che propongo per l’opera di Patarini, ma si tratta di operazione immaginaria e, di fatto, in termini critici, arbitraria, prende le mosse dal suo completo opposto: la superficie bianca ed intatta. Se ci proponessimo di asportare poco alla volta, con la forza dell’immaginazione, materia altrettanto immaginaria da quella superficie, decidendo così di rimuovere pesantezza materiale alla composizione, vedremmo affiorare le parti più elevate dello strato pittorico. Ne rimarremmo sicuramente affascinati; l’operazione assumerebbe senza ombra di dubbio una valenza di archeologia mentale, che permetterebbe di ritrovare più in noi stessi che nella realtà il principio ispiratore della composizione. Una mescolanza di pigmenti, colla e cemento mostrerebbero subito il loro volto scabroso, fortemente tattile, estremizzato nelle cromie così come negli andamenti della superficie, la quale ci apparirebbe come magmaticamente primitiva e segnata dagli andamenti delle forze naturali. Con, in più, una prevalenza di colori associabili ad ossidi e, quindi, essenzialmente prossimi ai fenomeni che regolano l’universo. Attraverso ciò ci troveremmo di fronte ad un’operazione di recupero di un passato mai esistito in quanto tale, ma al tempo stesso esistito in noi che compiamo l’operazione di recupero. Ed è qui che nasce l’opera messa in pratica da Patarini. L’artista lombardo, non certo nuovo ad operazioni di questo tipo, ama ricercare negli oggetti del passato una valenza per vivere e rappresentare il presente. Nulla avviene per puro caso, sembra volerci dire Patarini; tutto, nella storia, segue un suo corso avvalorato dalle azioni degli uomini. I quali, però, decadono lasciando spazio ad altri uomini ed azioni. Come gli uomini, anche gli oggetti vivono una loro vita, fatta di nascita e decadimento. Patarini ne raccoglie le vestigia cercando nel loro essere decadute ed ormai inutili una valenza nuova, consolidata da una progettualità solida ma condita del giusto valore di casualità. Così fa con i libri, con i metalli ossidati, con antichi ed ormai inutilizzabili strumenti di lavoro. Ma così fa anche con la materia che, tralasciando spesso il ruolo e le composizioni della pittura tradizionale, assume nelle opere un potere nuovo non solo evocatore di un passato, ma anche imitatore di uno o più aspetti del presente. Il ciclo qui presentato sembra poter essere considerato, così, come una naturale diramazione che prende vita dai cicli precedenti dell’artista, muovendosi su terreni nuovi pur senza tralasciare quanto dichiarato in precedenza. Aspetti della realtà, istanti, epifanie (per dirla alla Montale), proiezioni mentali di fenomeni naturali, vengono plasmati nella materia e lì fissati. La materia viene accarezzata dalle mani e dal tempo, per originare avvallamenti, punti di magma cromatico, calme piatte simili a rena modellata dal mare. Tornando “à rebours” verso l’operazione immaginativa e tornando, quindi, a scavare archeologicamente la tela, ci si imbatterebbe in una nuova e vera sorpresa. Se la parte superficiale rivela, infatti, il volto imitativo delle conseguenze dell’ossidazione dei metalli (quella ruggine che il titolo dichiaratamente richiama), la parte più profonda rivela allo spettatore l’elemento chiave della visione: la luce. In essa, infatti, risiede non solo il principio primo secondo la religione ebraica ma, ed è operazione storica, attraverso di essa l’arte ha raggiunto alcuni dei suoi esiti maggiori (basti pensare, ma sono solo esempi, alle cattedrali del gotico francese o a Caravaggio o George La Tour). La luce in Patarini assume connotazioni differenti, modificandosi, facendosi radente ed assumendo una doppia natura. Se, infatti, la luce esterna all’opera (quella che illumina l’ambiente in cui l’opera è collocata) ne permette la visione, è la luce interna all’opera che ne decreta i significati. Ma, se potessimo affrontare l’argomento anche in termini filosofici, potremmo senza ombra di dubbio indugiare nel pensiero che luce esterna e luce interna si influenzano a vicenda, dando luogo, e qui sta la novità, non solo ad una commistione di significati, ma, più in profondità, ad una commistione di significati variabili nella misura in cui la luce esterna si modifica. Ecco, quindi, che si potrebbe dar vita ad un paradosso: se è la luce interna a dare il significato vero all’opera mentre la luce esterna è da assimilare a semplice medium attraverso il quale l’occhio visualizza l’opera, allo stesso tempo la luce esterna è medium/attore nella semantica dell’opera, facendo sì che essa assuma significato, valore intimo, spazio mentale. “Di ruggine e di luce” diviene così un metodo di ragionamento, uno spazio dedicato ad un intimismo della visione, in cui ambiente, luce e spazio interiore si confrontano per dare vita ad una poetica sottrazione di peso alle situazioni dell’esistenza. (Michele Govoni)