Torino, Galleria Ariele, 18 aprile 2009
Quando si guarda un quadro la lettura non è mai unica. La verità di un quadro è poliedrica, come siamo poliedrici noi. Così, se prendiamo un quadro di Patarini, abbiamo la chiave di lettura informale, poi ci accorgiamo che ci siamo ingannati e vediamo che c’è l’elemento figurale, poi scopriamo che abbiamo trascurato l’aspetto buio, oscuro, misterico, assolutamente non infero, della sua tipologia di pittura… Sono quadri di cui ognuno di noi può dare una spiegazione in base alla propria soggettività. Io credo che il compito di un critico d’arte debba essere assolutamente umile. Non deve essere dittatoriale. Il critico d’arte non deve dare dei messaggi se non di carattere etico, se si è laici, o spirituale se si è dei devoti. In effetti io sono un critico d’arte che unisce non solo l’eticità, ma anche la devozione… Quindi un quadro va letto per la sua carica di spiritualità. Quand’è che un quadro è di bella ed emozionante pittura? Quando un quadro parla. E quando mi si chiede che cos’è l’arte, io non so assolutamente rispondere. Che cos’è un bel quadro? Io non so assolutamente rispondere. Ma posso essere soddisfatto quando una persona è accanto a me e guarda un quadro e mi dice: “Sai che provo una bella emozione?” E allora quando ci sono dei quadri che danno emozione come i quadri di Patarini, vuol dire che lui ci ha messo l’anima. E i quadri dove un artista ha messo l’anima curiosamente danno emozione. Ma poi ci sono anche dei casi in cui l’osservatore non riconosce questo valore aggiunto. Siccome io sono un critico d’arte ‘francescano’, ma anche un po’ carogna, molte volte sospetto che quando un quadro non da emozione, non è mica detto che è il pittore che non da emozione… Può essere che sia il povero osservatore che non ha anima: è ‘disanimato’, magari perché è un insicuro… Viviamo sempre situazioni curiose in cui uno deve chiedere all’altro: “Tu che cosa ne pensi? Tu quest’opera la capisci” “No, non la capisco”. “Me la spieghi?” “No, non posso spiegartela”… Però ad un concerto queste cose non avvengono. Quando si è a un concerto quello che ci è vicino non ci chiede la spiegazione di un passaggio musicale. E così per un quadro di Patarini. È il caso di decodificare i suoi ‘passaggi’, le sue ‘tonalità’, i suoi ‘contrappunti’, le sue analogie, le sue ‘disarmoniche armonie’? Come vedete uso non a caso lo stesso linguaggio della critica musicale. (…) E sto parlando di Patarini, sto parlando esattamente di come va letta o non va letta un’opera di Patarini. Patarini è chiaramente un pittore che non ha equivoci. Ha un sua nobiltà di espressione, una sua voluta equivocità, perché questi fiori sono come delle ombre, ma sono allo stesso tempo anche tangibili. Il pretesto dell’Informale serve a cancellare l’apparenza, a cancellare il visibile, a cancellare il riconoscibile, per mettere in risalto un fiore. E se allora si cancella tutto e si mette in risalto un fiore, vuol dire che per Patarini c’è ancora qualcosa da salvare. Forse l’ombra di un fiore.
Paolo Levi
(Trascrizione della presentazione della mostra personale di Virgilio Patarini ‘Fiori di cemento’, a cura di Valentina Carrera)
Le tecniche miste di Virgilio Patarini si rapportano spesso alla parola scritta, sia attraverso il filo sottile dell’analogia visiva, sia tramite la citazione diretta del graffito, fino all’uso di carte vergate a mano o stampate, immesse sulle superfici cromatiche. Si tratta di impaginati solo apparentemente criptici, di grande suggestione visiva, dove solitamente le variabili tonali di un solo colore prendono spazio e corpo su superfici corrugate dai materiali di diversa natura. Il superamento dell’immagine del reale si risolve qui in una complessità segnica preordinata, dove l’intenzione narrativa trova un riscontro visibile in un rapporto intenso fra la titolazione e l’esecuzione. Non c’è nulla di fortuito quindi nelle scelte formali dell’artista, che segue un percorso intellettuale nutrito di cultura letteraria, di cui traspone l’espressione e i significati in colore e materia. Il ricorso al graffito o al collage non persegue quindi uno scopo estetico, bensì attua una riflessione approfondita sul rapporto fra rappresentazione iconica e contenuto simbolico del dire poetico, dove l’astrazione non appartiene tanto alla forma visibile, quanto all’assordante silenzio della parola scritta. Tuttavia, di questi lavori è pur possibile effettuare una lettura non mediata, apprezzandone gli equilibri strutturali, le connessioni e i rimandi segnici, i giochi tonali che si rapportano agli spessori materici in modo congruo, e l’esaustività narrativa di ogni pezzo, ogni volta nuovo e diverso. Così appare intelligentemente coniugato il tema shakespeariano de Il fiore di Ofelia, dove una rosa bianca rimanda all’iconografia più classica, quella preraffaellita che vuole l’eroina morta e distesa nell’acqua, in mezzo ai fiori. In questa composizione non può mancare la citazione testuale di due pagine strappate e insanguinate, immerse in un grigiore liquido e terroso al tempo stesso. Evocano ancora due suicidi Last blues – Omaggio a Pavese, e Eros saffico: due poeti, due morti violente, due leggende; nel primo caso, sull’impasto pittorico del fondo, ovviamente argomentato di azzurro intenso, sono incise le parole inglesi che raccontano in larghi caratteri corsivi - molto tempo fa qualcuno è morto – una fine triste come la musica americana del titolo. Nel secondo sono verdi, viola e grigie le larghe tacche di pigmento pastoso e corrugato; quattro frammenti cartacei, in alto la parola eros trascritta in caratteri greci, e tre brani quasi illeggibili al centro della composizione, narrano di una poesia arcaica, frammentata e dispersa a causa del tempo e della dimenticanza, eppure ancora viva nella nostra memoria e nella nostra cultura come modello archetipico della poesia amorosa, e come espressione universale della forza distruttiva della passione. Mnemomachia – la battaglia della memoria? - titola invece una composizione apparentemente fredda e atonale, in realtà fervidamente concettuale e allusiva, si direbbe, di una perdita; le corde tese sulla superficie dell’opera segnerebbero quindi il percorso tenue del ricordo, ridotto a pochi flebili tratti scoloriti, mentre la parola Anghiari, tracciata minutamente in un angolo, potrebbe anche essere tutto quello che rimane di un’opera di Leonardo andata smarrita. Infine, in Appunti del sottosuolo, rimbomba cupa la parola di Dostoevskij, in una composizione scura, in uno spazio rossiccio e claustrofobico, dove la disposizione a scacchiera di due pagine scritte in una grafia minuta, fra cui occhieggia uno schizzo che ritrae lo scrittore, e di tre rettangoli vuoti, suggeriscono l’idea della finestra di una prigione.
Paolo Levi