L’intensa e copiosa produzione di Virgilio Patarini, in questa serie di quadri e installazioni ben rappresentata, da sola basta a giustificare l’attenzione riservata a questo giovane artista attivo da diversi anni a Milano, palcoscenico privilegiato delle principali avanguardie artistiche italiane. Ma numerosi altri sono gli elementi che convincono circa le qualità artistiche di Patarini.
In primo luogo, il comune denominatore di molti soggetti trattati da Patarini è la ricerca assidua, a volte ossessiva, delle radici profonde del linguaggio, inteso come sistema di segni – parole, codici, simboli e disegni – che l’uomo utilizza per comunicare. Il mistero del linguaggio, la fabula – della sua nascita, dei suoi antichi significati – è nei papiri di Saffo, appena fatti emergere dal Patarini archeologo dalle polveri della Storia, nei Codici Vinciani oppure nelle pagine visionarie e poetiche dei Proverbs of Hell di William Blake. Ma l’arcano del linguaggio appare e scompare anche in testi più vicini a noi, negli ex libris quali la serie dedicata a Dostoevskij -Memorie dal sottosuolo - oppure quella rivolta a Beckett – 3x3 oppure Waiting for Beckett - o in opere singole come La Notte di Dino Campana. Già altri artisti contemporanei hanno sviluppato il tema del linguaggio e della comunicazione, ma l’impostazione classica e mistica allo stesso tempo di un’archeologia del linguaggio in cui la decifrazione del messaggio è volutamente lasciata aperta, libera di essere interpretata, è novità inventiva che merita plauso. Per Patarini, infatti, l’arte è continuamente scoperta e trasformazione, materiale, ma soprattutto spirituale: ex nihilo nihil, dal nulla non si crea nulla, tutto si trasforma. Le creazioni artistiche di conseguenza devono essere intese come stimoli e occasioni continue rivolte a chi vuole recepire e, a sua volta, trasformare il messaggio, oggi e sempre. Solo in questo modo si può conferire eternità all’arte.
In secondo luogo, Patarini ha inteso la necessità di una nuova modalità espressiva capace di veicolare il messaggio anche in un’epoca di transizione, quale stiamo vivendo, soggetta a facili passioni, a fugaci contatti e poco incline alle meditazioni. In questi particolari momenti, il ruolo dell’artista diviene fondamentale perché egli deve farsi interprete delle reali esigenze della collettività e assicurarne la soddisfazione. E così Patarini ha convertito l’intima passione per il linguaggio in una missione pubblica rifiutando l’oblio delle grandi opere del passato e delle grandi personalità nella ferma convinzione che esse nascondano ancora molti segreti degni di essere scoperti. Le difficoltà di generare nuovi impulsi attraverso l’indagine delle molteplici testimonianze della memoria collettiva, remota e recente, sono ben note all’artista e non c’è l’illusione di un traguardo, ma piuttosto la convinzione di poter fornire un contributo. E Patarini lo fa scegliendo di risolvere sincronicamente con un quadro o un’istallazione un’opera diacronica per eccellenza come è un romanzo, una poesia o un testo teatrale. Ecco spiegate, solo per citarne alcune, Saffo – poesie d’amore, Elettra-Elektra, Amleto oppure Waiting for Godot.
In terzo luogo, è necessario soffermarsi sulle scelte formali adottate da Patarini che prosegue il cammino intrapreso con gli ex libris, senza rinunciare ad andare oltre verso una poetica del frammento capace, attraverso singole parole o frasi, segni e disegni, di far scorgere il mondo ignoto, favoloso a tratti indecifrabile che suscita curiosità e mistero. Per fare questo è stato però necessario lavorare sulla capacità di emozionare lo spettatore attraverso l’uso del colore e della materia. Patarini propone i suoi testi e i suoi autori preferiti, li frammenta e li ricompone su un ampio supporto, tela o tavola. Poi nasconde alcune parole o disegni e ne fa emergere altri. Cancella o rileva alcuni tratti alla ricerca dell’essenza del messaggio. Lascia intravedere solo alcune tracce – fino a giungere in alcune opere estreme alla tabula rasa - per non ostacolare nuove esplorazioni. In questa ricerca emotiva si aiuta con l’uso del colore, abilmente distribuito sulla superficie con pennellate gestuali e passionali, e con la materia: gesso, carta, legno, plexigass. Opere d’arte da toccare, non solo da guardare. Patarini giunge così ad opere in cui convergono verbale e visivo fino a comporre una visione di estrema compattezza: pittura e poesia non vengono più percepiti come effetti autonomi bensì in una presunta unitarietà in cui il nascosto, il mistero, servono a stimolare la fantasia e ad accrescere la suggestione.
Infine, come capita spesso agli artisti contemporanei, Patarini è in continuo dialogo con la tradizione artistica e non si preoccupa di nascondere i riferimenti consapevole che essi rimangono solo citazioni: all’arte informale di Vedova, al decollage di Rotella, alla Pop Art di Arman, ai combine paintings di Rauschenberg. Il suo manierismo non cede mai all’emulazione e non ricade nella ripetizione. E’ solo contaminazione intelligentemente e sapientemente praticata nella certezza che non ci sia bisogno di disconosce e disprezzare il lavoro di chi ci ha preceduto nella vana speranza di poter essere nuovamente originali ma piuttosto è doveroso rintracciare valori più stabili e senza tempo, nella ricerca continua della bellezza.
Il dialogo con la tradizione artistica è anche evidente nella necessità di esprimersi liberamente senza limitazioni di spazio, nella monumentalità di alcune opere, come Hamlet and the mother e le istallazioni dedicate a Mozart e Salieri da cui emerge sempre di più lo stretto rapporto con il teatro a cui Patarini attribuisce un ruolo di crocevia delle Arti, “esperienza totale e totalizzante”.
di Stefano Quatrini
La magia del testo scritto, il messaggio trasmesso, le storie raccontate, i misteri svelati da un libro non cessano di affascinare anche oggi nell’era dell’informatica e dell’elettronica. Patarini ben lo sa e ne subisce le conseguenze in prima persona incapace di vivere senza libri, bisognoso di distruggerli per appropriarsene secondo un rito ancestrale, per sua stessa ammissione, dal sapore cannibalesco. Cerimonia insolita che può essere confusa con una provocazione, ma che non lo è. Non vuole essere un’originale trovata per suscitare l’attenzione del pubblico. E’ invece un’esigenza interiore, un bisogno impellente difficile da spiegare che si traduce in una produzione ampia e concitata: gli ex libris ovvero le carte distrutte. Un filone d’indagine, un rito, iniziato e continuato da tempo. Eppure sempre nuovo, con tante variazioni. I primi ex libris, ricordo bene, sono il risultato di un’”ordinata distruzione” in cui vengono conservate tutte le pagine del testo per poter essere leggibili anche una volta trasposte sulla tela, sulla tavola o sul plexiglass. Il colore stesso e la materia vengono utilizzati per rendere le molteplici sensazioni – il bianco per esprimere la lontananza incantata dell’oriente nella Salomè, la trasparenza del plexiglass per la purezza dei sentimenti nella Vita Nova, etc. - provate da Patarini nel corso della lettura e della scoperta del testo e dei suoi reconditi messaggi. Ma vengono usati con attenzione, senza troppo nascondere. Il testo deve essere riconoscibile, quasi interamente leggibile e perciò è integralmente riportato; la stessa dimensione dell’opera è funzione del numero di pagine del testo, regola questa ferrea a cui Patarini si attiene senza deroghe. Ma poi le cose cambiano. Per un po’ gli ex libris vengono abbandonati, il filone sembra in esaurimento. In realtà continua a vivere nella mente dell’artista, nei suoi libelli di appunti: idee, spunti, bozzetti si susseguono. Nuovi libri vengono accumulati pronti per essere utilizzati. Una pausa apparentemente infruttifera che in realtà è conditio sine qua non per le produzioni più recenti. Non solo perché consente lo sviluppo di nuovi cicli – i codici vinciani e i frammenti – ma soprattutto perché è fondamentale per una svolta decisiva anche negli ex libris. La tecnica è ormai consolidata e Patarini è sicuro nell’esecuzione dell’opera, negli effetti estetici che determinate azioni e certi materiali possono offrire. E così si può muovere con maggiore disinvoltura, il gesto è rapido, realmente molto più vicino allo strappo di Rotella o alla forza distruttrice di Arman, il legame con il testo è meno vincolato. Patarini non si sente più costretto a lavorare su testi conosciuti, amati, elaborati nelle molteplici vesti di editore, scrittore o regista: ora può scegliere anche opere poco conosciute, oppure totalmente nuove. Il testo non deve più essere completamente presentato, anzi cancellature, graffiature, abrasioni possono rendere meglio il mistero del linguaggio, possono suscitare maggiormente la curiosità per l’opera. Il messaggio diviene così più aperto, le interazioni e i contributi di altri vengono facilitati. Il potere estetico del libro – magari un testo antico e assolutamente sconosciuto di autore dimenticato – possono suggestionare. Ecco che in alcune opere Patarini presenta un libro impacchettato, nella serie dei frontespizi – Odissea, Iliade, et cetera - il libro scompare del tutto per lasciare spazio solamente al titolo, al frontespizio appunto. Le pagine si confondono, sono nascoste dal colore e dalla materia, e così si deve ricorrere alla fantasia o al ricordo per comprendere ciò che Patarini ricerca. Oppure ci si può abbandonare al solo piacere estetico dell’opera senza bisogno di null’altro: anche questo è un messaggio. Anzi un monito, un avvertimento: l’estetica non deve essere contro i contenuti ma si può avere un’estetica dei contenuti in cui il messaggio non viene sacrificato, ma può essere reso più appetibile grazie alle infinite possibilità dell’arte che non è morta oggi, anzi è più utile alla nostra società di quanto si possa credere.
di Stefano Quatrini
Non è una novità che scrivere di Virgilio Patarini voglia dire scrivere di libri distrutti, carte lacerate e pagine strappate. E’ solo da qualche anno, tuttavia, che, accanto agli ex libris in cui l’intera opera letteraria viene, più o meno fedelmente, riportata, compaiono lavori in cui dominano frammenti e brandelli di scritti. Magari una sola parola. Magari le tracce di una frase accanto ai tratti di un disegno. A volte è palese l’accostamento, molto più spesso il legame che unisce i frammenti è colto ed erudito. La materia densa, il colore ed i diversi trattamenti adottati celano o svelano particolari, quasi fossero reperti di antiche civiltà fatte emergere da scavi archeologici. L’intenzione di Patarini è svelare senza, tuttavia, privare l’osservatore del privilegio di essere lui stesso l’artefice della scoperta. Patarini ci fornisce qualche indizio, poi pretende la nostra complicità, il nostro contributo. Per lui l’arte è scambio, interazione fra artista e spettatore. Il compito dell’artista è sollecitare interesse, curiosità, non certo emettere sentenze o imporre dogmi. Così sceglie il frammento che suggerisce senza la pretesa di completezza, che affascina perché mantiene quel senso di enigma di cui, nonostante tutto, abbiamo ancora bisogno. Eppure ci instrada, invitandoci a scoprire Antichi miti nascosti in scrigni oppure a ricercare le pagine omesse di libri di cui rimangono solo i frontespizi. Il tema dell’impossibilità di conoscere il mondo reale se non per frammenti è un tema già affrontato e dibattutto a metà del novecento, dai Joyce, dai Beckett, et cetera. Patarini coglie gli autorevoli contributi e prosegue nella ricerca. Lo fa con le parole che, anche se espresse in lingue remote, trattano i grandi temi dell’umanità – ad esempio eros e thanatos – oppure con i molti testi, noti o meno noti, che possono offrire spunti di riflessione o di contemplazione. In questi lavori, Patarini unisce e diffonde il valore del messaggio con l’importanza dell’estetica dell’opera d’arte: le sue opere sono contemporaneamente ricche di apporti contenutistici e ricercate nella composizione, nell’uso della materia e del colore. Il grande tema della conoscibilità della realtà contemporanea solo attraverso frammenti viene proposto da Patarini senza la drammaticità tipica del novecento: egli sembra farsene una ragione e ci riflette – invitando anche noi a farlo – in modo più sereno e, forse, fiducioso.
di Stefano Quatrini
L’arte è un particolare stato d’animo che si rivolge all’intelletto attraverso i sensi, ovvero l’estetica. Per gli artisti di oggi questo è un dato consolidato conseguente al lungo dibattito sviluppato nel corso delle Avanguardie del Novecento. Non è così immediato tuttavia proseguire sulle orme dei predecessori, le condizioni ambientali che prima favorivano tanti modi e linguaggi, le continue sollecitazioni, sembrano essere giunte al termine. Picasso e quelli della sua generazione hanno saputo ignorare le barriere delle convenzioni dell’arte del passato, hanno coraggiosamente combattuto contro i limiti imposti dalle regole ed hanno vinto la sfida. La loro migliore apologia è l’aver svelato tante vie, dal cubismo al futurismo, dalla metafisica alla pittura astratta, dal surrealismo all’informale, in grado di rappresentare le infinite possibilità dello spirito umano non più limitate ad un solo aspetto, quello che si può cogliere con uno sguardo fuggevole.
I nostri artisti contemporanei devono proseguire in questo difficile cammino in cui individuare nuove vie e raggiungere nuovi traguardi è sempre più arduo. E allora ci si domanda se debba ancora nascere un novello Picasso o se non siano altre le frontiere da valicare. E’ vero che ancora molti oggi ricercano la novità a tutti i costi, magari lo scandalo, ma difficilmente aggiungono nuove pagine ai libri di storia. In questo momento d’incertezza tuttavia alcuni artisti non si preoccupano troppo di superare i grandi maestri del Novecento, piuttosto auspicano di saperne cogliere i migliori insegnamenti. Fra questi, Virgilio Patarini si distingue per la sua ricerca assidua, a volte ossessiva, delle radici profonde del linguaggio, inteso come sistema di segni – parole, codici, simboli e disegni – che l’uomo utilizza per comunicare. Il mistero del linguaggio, la fabula – delle sue origini magiche o rituali e delle sue diverse metamorfosi – è nei frammenti d’amore di Saffo appena fatti emergere dal Patarini archeologo dalle polveri della Storia, oppure in altre opere in cui è centrale il tema d’amore. Già altri artisti contemporanei hanno sviluppato il tema del linguaggio e della comunicazione, ma l’impostazione classica e mistica allo stesso tempo di un’archeologia del linguaggio in cui la decifrazione del messaggio è volutamente lasciata aperta, libera di essere interpretata, è novità inventiva che merita plauso. Per Patarini, infatti, l’arte è continuamente scoperta e trasformazione, materiale, ma soprattutto spirituale: ex nihilo nihil, dal nulla non si crea nulla, tutto si trasforma. Le creazioni artistiche di conseguenza devono essere intese come stimoli e occasioni continue rivolte a chi vuole recepire e, a sua volta, trasformare il messaggio, oggi e sempre. Solo in questo modo Patarini ritiene si possa conferire eternità all’arte. Nessuna ricerca dunque di novità assoluta così come non c’è bisogno per suggestionare di inventarsi nuovi generi artistici: Patarini è infatti un sostenitore della contaminazione. Come capita spesso agli artisti contemporanei, Patarini è in continuo dialogo con la tradizione artistica e non si preoccupa di nascondere i riferimenti consapevole che essi rimangono solo citazioni: all’arte informale di Vedova, al decollage di Rotella o di Villeglè, alla Pop Art di Arman, ai combine paintings diRauschenberg. Il suo manierismo non cede mai all’emulazione e non ricade nella ripetizione. E’ solo contaminazione intelligentemente e sapientemente praticata nella certezza che non ci sia bisogno di disconosce e disprezzare il lavoro di chi ci ha preceduto nella vana speranza di poter essere nuovamente originali ma piuttosto è doveroso ricercare valori più stabili e senza tempo, aspirando continuamente alla bellezza. Il dialogo con la tradizione artistica è anche evidente nella necessità di esprimersi liberamente senza limitazioni di spazio, nella monumentalità di alcune opere, come nel grande lavoro Eros in cui il colore – il rosso della passione amorosa – emerge con forza dal nero, dalle tenebre della morte – Thanatos – in un’antitesi non solo visuale, ma soprattutto esistenziale. Ed è proprio il tema dell’Amore – Eros - che Patarini sceglie per sviluppare una serie di opere nuove che si distanziano dal filone di ricerca legato agli ex libris. Il termine eros, di origine greca, si riferisce all’amore passionale, motore pulsante della vita, legame inscindibile fra Uomo e Donna, antitesi di morte, Thanatos. Questo amore così forte è stato inteso dai Greci come “pazzia divina” che ha il potere di prevalere sulla ragione e di consentire all’Uomo un’elevazione oltre i limiti dell’esistenza. Una forza, dunque, potentissima in grado di competere con il mistero della morte, incognita oscura a cui da sempre l’umanità ha cercato di dare una spiegazione consolatoria attraverso la religione, la filosofia o la scienza. L’interesse per Eros, il celebre Dio dell’Amore o meglio del desiderio amoroso, è vivo in Virgilio Patarini che si deve confrontare con l’iconografia tradizionale (affreschi, pitture vascolari, sarcofagi, sculture in marmo del periodo ellenico e romanico) e con le molteplici interpretazioni offerte da poeti e filosofi – il “dolceamaro” Eros di Saffo oppure il “demone” del Simposio di Platone o il passionale Amore delle Metamorfosi di Apuleio. Un confronto certamente non privo di rischi che, tuttavia, Patarini accoglie con l’entusiasmo di chi non vuole smitizzare il passato, ma raccoglierne l’eredità ed adeguarla ai tempi per renderla comprensibile ed attuale. E lo fa con i mezzi che più gli sono propri: i testi scritti, i colori e la materia. Insieme. Mescolati in una alchemica atmosfera di raro fascino in grado di offrire emozioni e sensazioni che toccano l’Io interiore.
di Stefano Quatrini
La scrittura fu per Leonardo un’attività costante, convulsa e disordinata che lo accompagnò nel corso di tutta la sua esistenza. Nei Codici – una moltitudine di taccuini in cui compaiono scritte e disegni sugli argomenti più disparati – è tracciato il filo rosso del vagabondare mentale dell’italico genio da cui traspare un eclettismo ed una capacità intuitiva senza pari. Le sorti di questi Codici, nella loro successiva dispersione, hanno generato miti e leggende ed hanno suscitato un enorme fascino sui posteri. Fra questi non poteva mancare Virgilio Patarini, sensibile al tema del linguaggio, nelle sue diverse espressioni, verbali e visuali, e alle personalità versatili, acutissime e un po’ folli. Un’attrazione la sua dal sapore cannibalesco, di chi brama di impossessarsi di quelle virtù attraverso un’immedesimazione totale, fagocitandone le opere per assorbirne la maestria. Così Patarini seleziona fra i Codici quei frammenti e quelle figure che più lo intrigano, le riproduce e le utilizza nei suoi lavori. Inizia frammentandoli e ricomponendoli. Poi procede nascondendo alcune parole o disegni e facendone emergere altri. Cancellandone o rilevandone alcuni tratti alla ricerca dell’essenza del messaggio. Lasciando intravedere solo alcune tracce – fino a giungere in alcune opere estreme alla tabula rasa - per non ostacolare nuove esplorazioni. In questa ricerca emotiva è fondamentale l’uso del colore, abilmente distribuito sulla superficie con pennellate gestuali e passionali, e della materia: gesso, carta, legno, plexigass. Patarini considera le sue realizzazioni opere d’arte da toccare, non solo da guardare. E giunge così ad un risultato in cui convergono verbale e visivo fino a comporre una visione di estrema compattezza: pittura e poesia non vengono più percepiti come effetti autonomi bensì in una presunta unitarietà in cui il nascosto, il mistero, servono a stimolare la fantasia e ad accrescere la suggestione. Dai codici vinciani Patarini raccoglie i molti studi e disegni di opere celebri del Maestro da Vinci: la doppia maternità nelle diverse versione di “Sant’Anna, la Vergine e il Bambino” oppure “la Vergine delle Rocce” o ancora i diversi personaggi del Cenacolo. I disegni originali offrono uno spunto interessante per nuovi adattamenti, per originali interpretazioni ed improbabili accostamenti. Leonardo ha prodotto opere divenute miti – il cenacolo, la Gioconda, l’uomo vitruviano – e che hanno ispirato molti artisti – basti pensare all’Ultima Cena di Warhol – in varie reinterpretazioni che, seppure inferiori, meritano attenzione. A questi ora si aggiunge un nuovo nome: Virgilio Patarini.