DRUSILLA
(Il regalo di Natale)
Quella piccola strega di Drusilla mi spiava con odio, rannicchiata sul divano. Non mi aveva ancora perdonato quel mio piccolo tradimento, e rimuginava in cuor suo la maniera di vendicarsi.
Sapevo che l’indomani avrebbe di nuovo indossato, con la massima naturalezza, il suo abito consueto di assoluta indifferenza. Avrebbe fatto finta di nulla per giorni e giorni, forse addirittura per intere settimane, fino a quando io non avessi abbassato la guardia ... Solo allora avrebbe sferrato l’attacco decisivo, prendendosi così la sua diabolica vendetta.
Dicono che nel Basso Medioevo fossero tre le prove certe di stregoneria: il sapersi trasformare in gatto, l’avere un dito in più in un piede o in una mano, e lo strabismo. Ebbene Drusilla era leggermente strabica: lo si notava solo quando era molto stanca o particolarmente eccitata. In questi casi la sua pupilla galleggiava nell’orbita dell’occhio sinistro come un relitto alla deriva. Inoltre aveva sei dita in un piede: un piccolo difetto che avevo notato casualmente e solo molto tempo dopo l’inizio della nostra convivenza, un difetto che lei stessa non nominava mai, non so se per pudore o per indifferenza. Dicono, d’altronde, che persino Marilyn Monroe avesse il medesimo difetto ... e pare che nessuno dei suoi amanti se ne sia mai lamentato. Drusilla, inoltre, nei momenti di maggiore intimità, si strusciava sul mio petto e mi leccava dappertutto con piccoli e rapidi movimento della lingua, proprio come una gatta ... Per tutti questi motivi, dunque, sostengo che Drusilla fosse una piccola strega, una piccola strega deliziosa, imprevedibile e nervosa. Per questo mi piaceva. Tutto il contrario di Consuelo.
Anche Consuelo mi piaceva, ma per motivi diversi.
Consuelo l’avevo portata a casa più che altro per fare un dispetto a Drusilla. Volevo vedere come l’avrebbe presa. Era quasi Natale, e quel colpo di scena avrebbe infranto la monotonìa della routine quotidiana, garantendo, almeno per me, una certa dose di divertimento.
L’avevo trovata per caso su un marciapiede. Era peruviana e aveva uno sguardo smarrito. Quando la caricai in macchina rispose alle mie carezze con modi mansueti. E questo mi piacque subito. C’erano nei suoi occhi una dolcezza e una capacità di sottomissione apparentemente infinite. E poi, chissà, forse mi ero stancato di Drusilla, dei suoi modi così scontrosi, così selvatici. O forse volevo vederla ancora più furiosa scatenarsi contro quella povera peruviana così docile e indifesa ...
«Hai un posto dove passare le feste?», le chiesi ad un certo punto. Consuelo abbassò mestamente lo sguardo e scosse la testa.
«Non vorrai mica passarle sulla strada, eh?»
Quando Drusilla mi vide entrare con Consuelo ebbi il timore, per un istante, che le balzasse addosso, come per sbranarla. Ma si trattenne, e si limitò a lanciarmi un’occhiata carica di odio e di disprezzo.
Quella stessa notte la peruviana la passò nella mia stanza. Drusilla si adattò a dormire sul divano senza dire una parola.
Era la vigilia di Natale.
L’indomani mattina mi svegliai molto presto per andare ad assistere alla prima Messa mattutina. Uscii di casa fischiettando lasciando Drusilla e Consuelo che dormivano entrambe profondamente.
Quella della messa la mattina di Natale era un’abitudine che avevo fin da ragazzo e che non avevo mai perduto, neppure quando ero venuto a stare in città. Per la verità questa era l’unica abitudine di famiglia che io avessi in qualche modo conservato. Ed è veramente strano, perché anche allora, quando ero ragazzo e abitavo ancora in campagna, nessuno di noi ci credeva veramente, né ci sarebbe mai venuto in mente di andare in Chiesa nelle altre cinquantadue feste comandate dell’anno. Ma il giorno di Natale no, la Messa di Natale era sacra! Così anche la mattina di Natale di quell’anno mi alzai molto presto per andare alla Messa.
Al mio ritorno quella piccola strega di Drusilla se ne stava rannicchiata sul divano e mi guardava con uno sguardo pieno di odio.
Mi avvicinai al guardaroba, per posare cappello e cappotto, ma Drusilla mi si parò dinnanzi, impedendomi di aprire la porta.
«Che cosa mi nascondi, eh?»
Lei non rispose: si limitò a guardarmi dritto negli occhi con un sorriso come di sfida.
«Ho capito! Lì dentro c’è il mio regalo di Natale! E’ così?»
Drusilla sorrise di nuovo ed annuì. Allora io finsi di accondiscendere alla sua volontà arretrando di un passo, ma appena lei si distrasse, con un gesto repentino spalancai quella porta ...
Rimasi come pietrificato: sul pavimento dello stanzino giaceva il cadavere della povera Consuelo in una piccola pozza di sangue. Mi voltai, guardando Drusilla, terrificato. Lei era tornata ad accucciarsi sul divano. Se ne stava lì così, come se nulla fosse, e mi guardava imperterrita, con quella sua pupilla sinistra che ruotava nell’orbita dell’occhio come impazzita ...
(Qualora qualche lettore benpensante si fosse anche solo lontanamente scandalizzato per certe crudezze del racconto, potrei precisare che Drusilla è il nome della mia gatta siamese, mentre Consuelo è una cavia peruviana che ho trovato una sera d’inverno per caso per la strada, spaurita e infreddolita ammesso che questo cambi qualcosa del significato del racconto. Del che francamente dubito).
IL VECCHIO MARINAIO
(bozzetto)
Il vecchio se ne stava rintanato in un angolo di quella bolgia infernale. Gli occhialini tondi e neri sempre calati come un sipario davanti ai suoi occhi spenti, i capelli bianchi, folti e mossi come le onde d’un mare spumeggiante.
Un cagnaccio nero e spelacchiato gli stava tra i piedi, e di tanto in tanto mugolava, specie quando intorno a lui la cagnara si faceva più rabbiosa, o quando qualche canaglia gli pestava la coda.
Il vecchio invece non fiatava mai. Se ne stava con le braccia inanimate che pendevano lungo il corpo, il capo reclinato. Pareva come morto.
Quando allungava la mano nel buio per afferrare la caraffa di birra annacquata che gli stava davanti, quel gesto sembrava un vero e proprio gioco di prestigio. Come se ci fosse un invisibile filo legato all’articolazione del polso, e un altro filo fissato alla giuntura dell’avambraccio. E in alto, nel buio, un gigantesco Mangiafuoco, con occhiali tondi e neri calati davanti agli occhi spenti, e coi capelli bianchi folti e mossi, che tirava i fili di quel vecchio burattino disarticolato.
L’anima del vecchio era lontana. Passeggiava sulla riva di un mare sconfinato, e seguiva con lo sguardo una barca veloce veleggiare all’orizzonte nella luce dell’alba. Su quella fragile barca il suo coraggio di ragazzo aveva preso il mare la prima volta.
Quanto tempo era trascorso da allora? Duemila ... forse tremila anni ... Non ricordava più.
Dopo di allora era stato profeta, veggente, tessitore, poeta, telefonista, mendicante, e, infine, malato di mente. Ma prima di tutto era stato un marinaio. Anzi, in un certo senso, non aveva mai cessato di esserlo.
La sua prima barca l’aveva chiamata “Fortuna”. La seconda portava un nome di donna. La terza si chiamava «Follia». La quarta era una nave dallo scafo scuro e dalle vele di porpora, che aveva battezzato «Abisso».
Durante il suo ultimo viaggio doppiò le Colonne d’Ercole e il Capo di Buona Speranza, veleggiando verso l’Isola dei Beati e dispiegando ogni metro di vela dinnanzi alla Tempesta furibonda del Destino.
Dopo sette giorni e sette notti di lotta estenuante sopraggiunse improvvisa la bonaccia.
Egli era rimasto solo, dritto sul cassero, al timone di una nave popolata dagli spettri.
Benché la tempesta fosse passata, la nave restava ancora inspiegabilmente immersa nella caligine.
Il povero superstite scorgeva solo ombre intorno a sé, benché il calore del sole gli scaldasse la pelle. Fu allora che si accorse d’aver perso la vista:
«E’ il giusto contrappasso»,pensò in quell’istante.
Rimase al timone per giorni e giorni. Quando sentì di lontano gli strilli dei gabbiani, comprese di essere arrivato in prossimità di una costa. Diresse la prua verso quei suoni gracchianti. La nave si arenò. Allora egli si tuffò e proseguì a nuoto, raggiungendo miracolosamente la spiaggia.
Da allora egli vive d’espedienti, raccontando la sua storia a tutti quelli che gli offrono da bere nelle osterie dei porti lungo la striscia di terra della Lusitania.
Dicono che porti fortuna. Dicono che il viaggiatore che prima dipartire gli paghi da bere e lo stia ad ascoltare per tutto il tempo che dura la sua storia, ebbene dicono che costui può viaggiare tranquillo ed è sicuro di tornare.
Egli, per quanto lo riguarda, si limita a bere, a ricordare la sua storia quando serve, e a uscirsene fuori, nelle notti di vento, per correre in riva al mare ad ascoltarne l’eterno respiro.
CASABLANCA
(bozzetto)
Lui se ne stava seduto, immobile, per intere settimane. In un angolo, all’ombra di una palma finta.
Certe volte si toglieva il cappello, piegava la testa all’indietro, appoggiandola al muro; chiudeva gli occhi, godendosi quel poco d’aria che girava nel locale afoso.
Una pala al soffitto ruotava lentamente.
Se ci fosse stato un pianista negro, avrebbe potuto credere di essere a Casablanca.
Credo che quando il locale chiudesse, il barista lo lasciasse restare tranquillo al suo posto, al solito tavolo. No, non riesco a immaginarmelo altrove che lì.
A notte fonda, la testa appesantita dai fumi dell’alcool, appoggiava le braccia conserte sul tavolo, la fronte sulle braccia, il cappello portato all’indietro, sulla nuca, e si addormentava. Così, all’ora di chiusura, lui dormiva già da un pezzo, stroncato dall’ultimo bicchiere di troppo. Quando, al mattino, il ragazzo delle pulizie apriva il locale per rassettarlo, lo trovava ancora lì, nella medesima posizione; oppure sdraiato per terra, col cappello calato sulla faccia.
Nel pomeriggio il barista gli portava qualcosa da mangiare. Per il resto, un bicchiere dietro l’altro di un pessimo liquore locale annacquato.
Parlava poco, pochissimo.
Qualche volta scribacchiava qualcosa di misterioso sopra un tovagliolino di carta, e poi se lo infilava in una tasca interna della sua giacca sudicia.
Chissà, forse era un poeta.
La cameriera era la preda più ambita dagli avventori del locale, che, come avvoltoi, se ne stavano appollaiati sui trespoli lungo il bancone, o accucciati, come cani randagi, sulle sedie ai tavoli: era giovane, di origine cubana.
Gli avventori più giovani e arditi le lanciavano battute pesanti. Quelli più vecchi sguardi pieni di malinconia. Qualcuno, di tanto in tanto, allungava le mani. Alle parole e alle occhiate la cubana rispondeva con un sorriso distante. Alle pacche sul sede con schiaffi sonori ben assestati.
Lui osservava la bramosia degli altri avventori da sotto le falde del suo cappello calato sugli occhi. Tanto lui lo sapeva che se la cubana aveva voglia di un uomo, si fermava con lui dopo l’orario di chiusura.
Facevano l’amore, di solito in piedi o sul pavimento. Una volta l’avevano fatto sul tavolo, ma era stato un po’ scomodo.
Lui non aveva la minima idea di perché mai lei lo preferisse a tanti altri frequentatori del locale. Daltronde non era tipo da porsi questo genere di domande.
Lei invece lo sapeva benissimo perché lo avesse preferito. Aveva qualcosa negli occhi, quell’uomo, dietro l’appannamento provocato dall’alcool e da quello schifo di vita. Probabilmente aveva un passato. Probabilmente un tempo aveva vissuto, forse, addirittura, aveva sognato. Era questo che lo rendeva diverso da tutti quegli altri uomini vuoti, che, come me, affollavano il locale.
Se lui fosse stato ancora capace di guardare dentro il cuore degli altri, avrebbe potuto forse scorgere che la cubana aveva un sogno. E questo, forse, avrebbe potuto fargliela amare.
Ma, a lui, nello stato in cui era adesso, la parola “amore” avrebbe provocato soltanto la deformazione di un angolo della bocca in una smorfia sofferente, ombra, vaga e lontana memoria di quello che un tempo era stato un sorriso.
VOCAZIONE LETTERARIA
(raccontino didascalico)
Aveva sempre voluto fare lo scrittore, ma ben presto si era accorto che bisognava aver vissuto delle storie per poterle raccontare. Così partì per il mondo. e visse, e affondò le mani, e percorse in lungo e in largo tutte le storie che incontrò sulla sua strada. Poi un giorno, vecchio e stanco, fece finalmente ritorno, pensando che fosse arrivato il tempo di realizzare il suo sogno. Aveva conosciuto la vita, il mondo, gli uomini, e adesso poteva raccontarli.
Almeno questo era quello che pensava.
Sedette così allo scrittoio, nella grande biblioteca di famiglia, armato di carta, penna e calamaio, in attesa che il sacro fuoco dell’ispirazione lo attraversasse, e dalla fonte oscura della memoria scaturisse un fiume tumultuoso di storie d’ogni sorta.
Invece nulla.
Lui se ne stava lì, ma non succedeva nulla.
Attese un mese, un anno, ma nulla: non scoccava neppure una scintilla, non sgorgava neppure una goccia!
In quell’attesa snervante, così, tanto per ingannare il tempo, si mise a sfogliare qualche libro pescato a caso nella sterminata biblioteca di famiglia. Fu una vera e propria scoperta. Una rivelazione.
Ognuno di quei libri, da solo, conteneva le avventure, le emozioni, gli incontri, gli avvenimenti di una vita intera, talvolta quelli di più d’una; ed erano tutte quante vite piene ed entusiasmanti, molto più piene ed entusiasmanti della vita pur piena ed entusiasmante che egli aveva vissuto.
Tutti quegli anni trascorsi in giro per il mondo, in caccia di storie e di avventure, erano stati spesi invano: tutto quello che cercava era lì, a portata di mano, nel punto esatto da cui era partito nella sua affannosa ricerca! Questo almeno fu quello che egli pensò allora, come conseguenza di quella sua prodigiosa scoperta.
Ma forse le cose non stavano esattamente così. Forse quella sua vita vagabonda e avventurosa non era stato altro che un necessario cammino di avvicinamento, la via d’accesso, il valico da attraversare, per poter raggiungere quello spiazzo infinito dello spirito, concentrato in un minuscolo luogo fisico circondato da scaffali polverosi, da cui si diramavano infiniti percorsi percorribili a dorso di libro.
Soltanto allora, infatti, dopo tante esperienze dirette, era stato in grado di riconoscere la verità e la magia nascosta in quel luogo.
«Per scrivere una storia bisogna leggere altre storie», pensò allora il vecchio.
E fu come tornare ragazzo, e ricominciare tutto quanto da capo.
Sprofondò così nella lettura.
Divenne molto vecchio.
Da principio ogni tanto si domandava: «Quando avrò letto abbastanza? Quando potrò scrivere qualcosa di mio?» Ma col tempo smise anche di porsi queste oziose domande, sprofondato completamente in quel mondo di sogni e di illuminazioni, di dolori e di dolcezze, di uomini concreti e di illusioni.
Ancora adesso, credo, nonostante tanto tempo sia passato, il suo spirito è ancora chiuso lì dentro, in quella stessa stanza, e vola da uno scaffale all’altro, e attraversa paesaggi infiniti e prodigiosi, e visita località lontane e sconosciute, e incontra personaggi d’ogni tipo o religione, senza annoiarsi mai, realizzando così pienamente la sua vocazione per la letteratura.