Nota. Questo testo affronta il problema della percezione del tempo. Paradossalmente si è cercato di risolvere diacronicamente, attraverso una partitura narrativa, l’enigma di un istante, la conflagrazione sincronica di tutta una vita in un momento cruciale della stessa. Qualcosa di enorme è accaduto. C’è una voce che parla nel buio. Una voce che contiene altre voci. Una coscienza esplosa, saltata, come dopo un cortocircuito. Un’intera esistenza che passa in un lampo accecante. Tutto il passato e tutto il futuro nel crogiuolo incandescente di un presente polverizzato. Nell’infinito tempo di un istante. Un paradosso, appunto. Un paradosso che la tessitura narrativa gioca e dipana. Qualcosa di enorme è accaduto. Qualcosa di troppo grande per essere compreso immediatamente dalla donna protagonista del romanzo. Un delitto. O forse più di uno.
*
Qui. Io sono qui. Non so dove. Qui. Non so che cosa sia questo posto. è buio. Quasi completamente buio. Una stanza circolare. Questo posto è una specie di grande stanza circolare. Pareti di pietra che girano tutto intorno. C’è qualcosa in mezzo alla stanza. Una macchia biancastra, lattiginosa nel buio della notte. Un tavolo. Un tavolo in mezzo alla stanza. Sul tavolo un lenzuolo. Una macchia informe e lattiginosa. Ci dev’essere qualcosa sotto il lenzuolo. Forse la sagoma di un uomo. La vaga, informe sagoma di un uomo coperto da un lenzuolo bianco. Intorno al tavolo quattro candele accese. Credo. è buio. C’è un buio denso, come un velo scuro che copre ogni cosa. Dev’essere successo qualcosa. Sul fondo della stanza c’è una grande finestra. Almeno credo. Forse più di una. Ma da una soltanto arriva la luce della luna. Intravedo un incerto lucore bluastro. Un rettangolo blu, una finestra interrompe il circolo infinito di una parete di pietre a secco che gira, gira tutto intorno. Fuori dalla finestra uno scorcio di paesaggio marino illuminato dalla luna. La luna non si vede. C’è ma non si vede. La indovino dal riflesso sull’acqua. Piccole scaglie di luce sparse sull’acqua. Farfalle di luce inquiete, silenziose. Sono stata a lungo a guardare fuori da quella finestra, credo. Come assorta. Forse anche adesso sono alla finestra, solo che ho chiuso gli occhi. Non so. C’è uno specchio in frantumi, accanto alla finestra. Piccole scaglie di luce sparse sul muro. Piccole scaglie di luce vibrano inquiete, silenziose, alla luce tremula di quattro candele. Come le farfalle di luna sull’acqua. Anche quell’uomo coperto dal lenzuolo c’è, ma non lo vedo. Come la luna. È alle mie spalle. Sì, mi sono voltata. Ho lasciato quella macchia biancastra alle mie spalle. Non so chi o che cosa possa essere. E non voglio saperlo. E non ho nessuna intenzione di voltarmi per controllare se è ancora lì. Forse non c’è più. Forse me lo sono solo immaginato. Non so. Tutto questo è difficile, confuso. Anche le mie idee sono farfalle inquiete. E mute. Appese al muro. O sparse sulla superficie dell’acqua. Dev’essere successo qualcosa. Sì, qualcosa. C’è troppo silenzio qui. O forse è solo nella mia testa. Non so. Ho la testa pesante, ovattata. E i piedi nudi. Una specie di sordo ronzìo nelle orecchie. Un formicolìo alla punta delle dita. Un senso di vertigine. Non riesco a pensare. Non riesco a fissare i miei pensieri su nulla. Come farfalle che non si posano mai. Che non trovano nulla su cui potersi posare. Solo schegge, scaglie di vetri a pezzi. Non c’è nessun rumore. Nessuna voce. Forse è tardi, molto tardi. Forse è notte fonda. Non so. Strano. Forse per questo sono in sottoveste. Una sottoveste chiara, leggera. Anch’io sono una macchia biancastra, lattiginosa, nel blu della notte. Nessun rumore. Nemmeno la voce del mare. Strano. Un film senza sonoro. Un vecchio film muto in bianco e nero.
Ecco. Io sono qui. Adesso. Dev’essere successo qualcosa. Ora i miei occhi si stanno abituando alla penombra. Ora riesco a distinguere un po’ meglio quello che mi circonda. Questa stanza circolare, con i suoi muri a secco e la grande finestra che si affaccia sul mare e il tavolo imbandito, coperto da un drappo bianco, in mezzo alla stanza. Vuota. Questa grande stanza circolare vuota… C’è qualcosa che non va’. Non c’è consonanza tra quello che vedo e quello che sento, percepisco. Percepisco delle presenze. Non sono sola. Questa stanza non è vuota. Credo. Ci sono altre donne dentro questa stanza. Non importa se non le vedo. Ci sono e basta. Lo sento. Sì, dev’essere senz’altro successo qualcosa. Non so chi siano queste altre donne. Tre. Tre donne, credo. Una ragazzina, una donna e una vecchia. Ombre in controluce nel rettangolo della finestra. Dev’essere la luna che fa di questi scherzi. O forse sono le farfalle. Ma perché mi trovo qui dentro, scalza, con indosso una sottoveste leggera, di seta, nel cuore della notte? Dev’essere estate. Sono certa che siamo in estate. Eppure l’aria è fresca. Dev’essere la vicinanza del mare. O il fatto che è notte fonda. Poco prima dell’alba. è il momento più fresco della giornata. Di notte. Poco prima dell’alba.
Ecco. Adesso qualcosa succede. C’è una voce di donna, lontana e profonda. Intona un lamento struggente. La voce sembra arrivare da un punto indefinito al di là della finestra chiusa. Dalla luna. O dal mare. Ecco. è il primo rumore che infrange questo silenzio assordante. Ma si tratta di un rumore reale? Oppure è solo nella mia testa? O forse è il silenzio che non è reale. Forse è il silenzio una vertigine di delirio che rotea nella mia testa. E il rumore, la voce, è reale. Non so.
Ecco. Ora una folata di vento improvvisa spalanca i battenti della finestra. La voce della donna adesso irrompe nella stanza, come un fiume in piena. Sì. Davvero dev’essere successo qualcosa. Non so che cosa. Non so neppure che c’entri con me tutto quello che vedo e che sento. Tutto quello che mi circonda. Il buio. E questa stanza circolare. Il mare. E le farfalle di luce inquiete e silenziose.
Ecco. Adesso una delle tre ombre si muove molto lentamente, si avvicina alla finestra, la raggiunge, e, molto lentamente, la richiude. Credo che sia l’ombra della donna. Ora il lamento struggente torna ad essere soltanto un’eco lontana. Strano, la finestra si era aperta, eppure non ho sentito la voce del mare. Solo quel lamento struggente. Solo questo lamento lontano e struggente. Che forse esiste solo nella mia testa.
Ma, ecco, succede ancora qualcosa: ora c’è una seconda voce che si sovrappone alla prima: una voce leggera, la voce di una ragazzina che canta piano piano una specie di filastrocca. Questa volta la voce sembra provenire dall’interno della stanza. Dev’essere l’ombra della ragazzina che canta sottovoce. Tutto questo ha qualcosa di familiare. Questo delirio ha qualcosa di familiare. Delirio, sì. Credo che sia delirio. Mi sento le tempie pulsare. Una goccia di sudore freddo mi percorre la schiena, in mezzo alle spalle, mi scivola lungo la colonna vertebrale, fino in fondo, tra le gambe. Sono nuda. Sono nuda sotto la sottoveste. Non me ne ero accorta prima. Strano. Quella voce, quella canzone mi fa venire i brividi. Strano. Eppure al tempo stesso è in qualche modo familiare, rassicurante. Non credo che tutto questo ci sia realmente. La voce, la canzone, le ombre… no, non credo. Non credo che tutto questo sia reale. E io non ho mai creduto ai fantasmi. No. Escludo che le tre donne siano dei fantasmi.
Ecco. Ora i miei occhi sono avvezzi alla semi-oscurità della scena. Posso distinguere perfettamente quello che mi circonda. Le tre ombre non ci sono. Le vedo ma non ci sono. O forse no, al contrario ... Ci sono ma non le vedo ... Non lo so ... Tutto questo è molto strano. Eppure al tempo stesso c’è qualcosa di molto familiare in tutto questo. Un flash-back. La scena di un film vista e rivista così tante volte da averla dimenticata.
La ragazzina si dondola leggermente, e canticchia sottovoce. Le altre due ombre sono perfettamente immobili. Anche la donna, dopo aver richiuso la finestra, è tornata nella posizione iniziale. La ragazzina forse è succube di un incantesimo. Come capita talvolta ai bambini che si fanno ammaliare da un suono o da un movimento e lo ripetono all’infinito, fino allo stordimento. Mi ricordo una volta, quand’ero bambina, non so bene dove fossi, forse in camera mia, forse in cucina, seduta a cavallo di una vecchia sedia di legno, una di quelle vecchie sedie di una volta, con la spalliera e il sedile di ruvida corda intrecciata. La corda mi sfregava lievemente sul petto e in mezzo alle gambe. Io mi dondolavo indolente nel caldo afoso di un pomeriggio d’estate, come catturata da quel lento dondolìo provocato dal mio corpo, impresso al movimento della sedia dalla ritmica, costante, oscillante pressione del mio petto contro lo schienale, e dalla corrispondente, ritmica, costante contrazione dei muscoli dei miei polpacci che spingevano sulla punta dei piedi e ribilanciavano l’inclinazione all’indietro, rimandandola indietro ogni volta di qualche grado e provocando ogni volta l’oscillazione. Di fuori venivano le urla gioiose di scatenatissimi compagni di giochi che mi chiamavano a gran voce… Io avrei voluto uscire e correre da loro e lanciarmi con loro in una delle nostre consuete scorribande per i campi, ma un fremito, un incantesimo, un desiderio oscuro e inebriante mi tratteneva lì, costringendomi a restare seduta su quella vecchia sedia di legno e di ruvida corda, aggrappata a quella sedia a dondolarmi e sfregarmi lentamente il sesso glabro e i minuscoli capezzoli infantili contro la ruvida scorza di legno e di corda, mentre fuori le voci mi chiamavano sempre più acute e imperiose, e io rallentavo sempre di più, ad arte, l’oscillazione di quella sedia in bilico sulle due gambe posteriori… sempre più lenta, sempre più ampia… sempre più ampio e più lento l’ubriacante rollìo di quella sedia, su quella sedia, col mio corpo che assecondava quella risacca di sensi, come un relitto sulla battigia cullato dall’onda che si allunga e ritrae ritmicamente… assecondando quell’estenuante, ubriacante rollìo col respiro trattenuto, con gli occhi chiusi, socchiusi, fino allo stordimento, fino all’estasi, al turbamento… Fino all’istante in cui il sordo ronzìo alle orecchie, come il rombo assordante del mare, copriva ogni strillo proveniente da fuori della stanza dalle voci dei bambini festanti e colmava, per un istante, la grande stanza vuota e circolare del cuore…
Ecco. La bambina continua a dondolarsi e a canticchiare la sua monotona canzoncina nello spazio vuoto di questa stanza circolare. Il tempo passa, lento e inesorabile. Rallenta il suo corso. Rallenta. La bambina tiene qualcosa tra le mani: un piccolo oggetto luccicante, qualcosa che attira la mia attenzione, qualcosa in cui il mio sguardo si perde, come in un pozzo senza fondo. Si tratta di un piccolo specchietto rotondo. Un piccolo pozzo in cui il mio tempo è caduto in trappola, si eclissa, sprofonda, in un vortice che scende ad ampie volute sempre più ampie, sempre più lente, più tarde... Ecco, sì, dev’essere la canzoncina. C’è qualcosa di estremamente familiare nella nenia di questa canzoncina. è come se questa melodia risuonasse nella mia testa da sempre. Da sempre. Forse è per questo che tutto mi sembra così familiare. Forse tutto questo succede da sempre. Come un disco incantato.
Al diavolo. Non capisco che c’entri tutto questo, le tre donne, la canzoncina e tutto il resto, con me. E soprattutto perché diavolo non riesca a concentrarmi su di me, sui miei piedi nudi, sui vetri, sugli specchi infranti che cospargono le pareti e il pavimento di questa stanza circolare, su questa maledetta stanza circolare, su che cosa sia, che cosa rappresenti… e perché diavolo io sia qui, a piedi scalzi e in sottoveste, nel cuore della notte, in una chiara e fresca notte di mezza estate.
Sì. Dev’essere successo qualcosa. Sì. Qualcosa. Non c’è altra spiegazione. Ecco. Un velo scivola giù dal mio volto. Adesso. Accarezza il mio volto come l’ala di una farfalla. Un suono sommesso, come di un’onda leggera che scivola sulla sabbia del litorale. Un velo… Questo significa che indossavo un velo. Non me ne ero accorta prima. è sempre così. Ci accorgiamo di quello che abbiamo solo quando lo perdiamo. Strano. Un velo nero e una sottoveste di seta leggera. Tutto questo non ha senso.
Ecco, adesso la ragazzina si arresta. Il suo sguardo si posa sul mio velo caduto al suolo. L’incantesimo dei suoi gesti resta come sospeso, appeso, impigliato nella rete del mio velo. Strano. Dev’esserci qualcosa che ci lega. Che ci collega. Qualcosa che mi sfugge.
Dev’essere successo qualcosa. Non so che c’entri con questo la ragazzina e tutto il resto. Mi sento come una sonnambula che danzi tra il sonno e la veglia. Non so distinguere i sogni dalla realtà. Forse è sempre stato così. Il pavimento è disseminato di vetri infranti. Farfalle trafitte.
Ecco, la ragazzina ha ripreso a dondolarsi. Canticchia sottovoce fissando con lo sguardo vuoto uno specchietto rotondo che si rigira tra le piccole mani bianche, quasi trasparenti.
Il pavimento è disseminato di vetri infranti. Piccoli bagliori intermittenti nel buio della stanza. O forse sono solo nella mia testa tutte queste scaglie di luce. Sì, dev’essere successo qualcosa. Qualcosa di spaventoso. Cammino a piedi scalzi sopra un tappeto di cocci acuminati. E ho la testa piena di farfalle. Nulla ... Non sento nulla. Nessun dolore. Dev’essere per forza successo qualcosa. Qualcosa. Non ricordo cosa. Sì. Qualcosa di spaventoso. Qui. In questa stanza. Oppure fuori, sulla riva del mare. Nel cerchio di luce della luna. Qualcosa che ha infranto la levigata e trasparente superficie dei miei sogni mandandola in frantumi. Qualcosa che mi ha riempito la testa di farfalle.
Che cosa ci faccio io qui, in questa stanza buia, a piedi scalzi, nel cuore della notte? Come ci sono arrivata? Al diavolo. Mi gira la testa. La mia testa si è staccata dal corpo e gira, gira. Continua a girare come una trottola impazzita. Mi viene da vomitare. Dev’essere il sangue. La vista del sangue. I miei piedi sanguinano. Non ho mai sopportato la vista del sangue. La vista del sangue. è mio questo sangue? Tutto questo sangue.
Ecco… di nuovo il velo scivola dalla mia faccia. Di nuovo il lento sciabordare di un’onda sulla sponda del litorale. La mia voce risuona profonda. Riecheggia come un accordo di violoncello in un labirinto di grotte sotterranee. Ad ogni giro il suono è più sordo. Più lontano e più sordo… Ci sono cose così scontate che ci sembrano sempre nuove e non ci stanchiamo mai di ripetere. E poi ci sono cose che è meglio non pensare. Cose da perderci la testa.
Meglio, molto meglio non pensare. Meglio scordare. Lasciarsi andare, cullare. Tra le braccia accoglienti dei sogni. Chiudere gli occhi. Dormire. Sognare. Scordare. Lasciarsi andare. Lasciarsi trasportare dalla spirale avvolgente dei sogni. Lasciarsi risucchiare come in un gorgo. Laggiù, in fondo. Laggiù in fondo c’è il silenzio.
Ma forse il fondo non si raggiunge. Non si può raggiungere. Un pozzo senza fondo. Forse si continua a sprofondare in eterno. Nella spirale del tempo. Tempo. Forse il tempo è un pozzo senza fondo. Da quanto tempo sono qui?
Ecco. Questa è una buona domanda...
La ragazzina continua a dondolarsi e a canticchiare la sua nenia, con gli occhi persi nel vuoto di uno specchio. Io cammino su di una distesa di sogni infranti. Dev’essere per forza successo qualcosa. Qualcosa. Ecco, adesso mi sforzo di ricordare. Di capire. Qualcosa mi ha scaraventato qui, nel ventre oscuro della notte. Qualcosa mi ha strappato dalle braccia materne dei sogni e mi ha trascinato a piedi scalzi fino a qui, in questo atrio sinistro…
Ero rannicchiata da qualche parte, credo. Dormivo, credo. Forse sognavo. Ora mi ritrovo qui. Sono arrivata qui come dentro a un sogno. Forse ho corso. Sono arrivata qui in un lampo. In un batter di ciglio. Come in un sortilegio. Per questo non me ne sono accorta. Forse ho corso. Forse corro anche adesso. Ecco. Forse adesso sto correndo. Correvo, sì, ma come si corre solo dentro ai sogni. Senza muovermi d’un passo. Immobile. Come adesso. Correvo senza muovermi d’un passo. Una corsa trattenuta. Una corsa interiore. Una corsa pietrificata. Lungo un interminabile corridoio. Al ral - len - ta - to - re.
Ecco. Correvo come al rallentatore. Le braccia e le gambe paralizzate. Le gambe e le braccia imbrigliate, legate, fasciate nelle bende elastiche di un sogno da cui fuggivo e che pure, in qualche modo, ancora mi tratteneva. Un sogno.
Era un sogno? Davvero era un sogno? Forse è tutto un sogno. Forse tutto è sogno. Poi dev’essere accaduto qualcosa. Una ferita. Una lacerazione. Qualcosa che ha strappato le dense cortine di sogno da cui ero avvolta. Forse è stato un rumore a farmi balzare in piedi, a spingermi qui, in questa enorme stanza vuota, piena di vetri infranti e di candele consunte. Questa stanza. Che razza di posto è questo. Enorme stanza vuota, piena dei resti di una festa. Di una tavola imbandita. Come il mare dopo un naufragio, cosparso di relitti alla deriva. Un rumore, sì. Un rumore inaudito. Un tuono. Il rombo assordante di un tuono. O qualcosa del genere. Non ricordo. Sì. Dev’essere stato qualcosa del genere a strapparmi dalle braccia materne dei sogni. Non ne sono sicura. Sono così confusa. Ma forse anche questo è un sogno. Non sono sicura di nulla. I miei piedi sanguinano. Forse anche questo è un sogno.
Sogno?
Sogno.
Inutile sforzarsi. Inutile opporre resistenza. Inutile puntare i piedi. Tutto inutile. Molto meglio lasciarsi andare, lasciarsi sommergere dal proprio destino come dalle onde lente e inesorabili del fiume limaccioso della dimenticanza. Inutile cercare di afferrare, trattenere, comprendere. Inutile sforzarsi di ricollegare i segni residui di un disegno cancellato, spazzato via dalla furia di un’onda più alta e più forte. Esiguo è l’argine della nostra memoria. Inutile affannarsi per riconnettere i frammenti di una vita infranta, dopo che la tempesta è passata. Tutto inutile. Nulla. Non serve a nulla.
Ecco, una tempesta. Forse una tempesta è passata sulla mia testa. Quello che mi circonda, allora, è tutto ciò che resta. I miei piedi sanguinano, ma io non sento nulla. Nulla. Nessun dolore. Strano. Dev’essere per forza successo qualcosa. Qualcosa di inaudito. Qualcosa di spaventoso. Non ricordo cosa. Ma certo qualcosa dev’essere accaduto. Come una tempesta. Un cataclisma. O qualcosa del genere.
Ci sono cose che accadono. Così. Senza ragione. Accadono e basta. Cose che ci arrivano addosso all’improvviso. Senza ragione. Arrivano e basta. Ma poi passano. Inutile affannarsi. Inutile disperarsi, strapparsi i capelli di testa. Arrivano. Ma poi passano. Come oscure nuvole passeggere. Appaiono all’orizzonte, piombano sul nostro capo, incombono come le ombre di una sciagura che non si può evitare. Scaricano su di noi la loro pioggia acida, distillato di maledizioni, penetrano fin dentro le ossa, con i loro miasmi ammorbanti, ci contaminano fino alle midolla. Ma poi passano. Non c’è nient’altro da fare che sedere e abbassare lo sguardo. Sedere e aspettare. Sedere e lasciarle passare. Nient’altro da fare. Sedere e fissare la punta dei piedi. Aspettare. Lasciarle passare.
I miei piedi sanguinano ...
Ecco, la ragazzina ancora una volta si arresta. Ancora una volta mi fissa, col fiato sospeso. Si aspetta qualcosa da me. Una storia, credo.
Quand’ero bambina, mi ricordo, non sopportavo di tenere le scarpe ai piedi. No. Proprio non lo sopportavo! No... Non ho mai sopportato le scarpe ai piedi. Fin da piccola. Soprattutto d’estate... Mi sono sempre sentita soffocare con le scarpe ai piedi. Strano, no? Come se respirassi con i piedi. Forse sono tornata bambina. Per questo sono qui, scalza. Il pavimento è freddo. Non me n’ero accorta prima.
Ecco, adesso la ragazzina si infila lo specchietto in una tasca e svelta svelta si sfila le scarpe dai piedi, le scaglia lontano alle sue spalle. Si contempla i piedi nudi. Sono io quella ragazzina? Tutto questo è strano, molto strano.
è estate adesso? Non ricordo. Appena potevo mi toglievo le scarpe e me ne andavo in giro scalza. Mia madre s’arrabbiava terribilmente, ma io le dicevo:
Non sei contenta, mamma? In questo modo ti faccio risparmiare il denaro per il calzolaio!
Le dicevo proprio così:
Non sei contenta, mamma? Così ti faccio risparmiare i soldi del calzolaio!
No. Mia madre non era affatto contenta, ed attaccava con un’interminabile tiritera di raccomandazioni.
Attenta alle spine, mi diceva, Attenta alle spine! Attenta ai sassi appuntiti! Attenta ai cocci di bottiglia!
Così mi diceva sempre mia madre.
Attenta ai sassi appuntiti! Attenta ai cocci di bottiglia!
Non preoccuparti, mamma. Non ho bisogno delle scarpe. A furia di camminare scalza ho la pelle sotto la pianta dei piedi più dura della suola delle scarpe.
Ecco, adesso la ragazzina pesta più volte i piedi a terra come se stesse improvvisando una sorta di danza bizzarra. E ride. Sono certa che ride. L’eco delle sue risate scivola sull’eco della risacca e la sommerge…
Attenta ai cocci! Attenta ai sassi! Attenta alle spine!
Non preoccuparti, mamma. Ho la pelle sotto i piedi più dura delle scarpe.
Attenta ai cocci! Attenta ai sassi! Attenta alle spine!
Era apprensiva mia madre. Molto apprensiva. Però mi lasciava fare. Credo che in fondo in fondo, quel mio spirito ribelle non le dispiacesse completamente. Ma era mia madre. E non poteva uscire dalla sua parte. Specialmente allora. Allora che mio padre se n’era partito per la Grande Guerra e che ancora non faceva ritorno.
Ecco. Adesso un colpo di vento spalanca di nuovo la finestra. Come prima la voce lontana e profonda di una donna che intona un lamento struggente irrompe nella stanza. La donna, reagendo come un automa, si avvia a richiudere i battenti spalancati dal vento. La ragazzina si risiede, tira fuori di nuovo lo specchietto tondo in cui il suo sguardo si perde, e riattacca con la sua solita filastrocca canticchiata sottovoce. Anche la donna ritorna all’atteggiamento iniziale.
Non capisco. Stavo sognando. Sprofondavo nel regno senza tempo dei sogni. Poi, all’improvviso, mi ritrovo qui. Qui. Sulla riva di questa afosa e stralunata notte d’estate. Non so come possa essere accaduto. è strano. Decisamente strano. Stavo sognando, sì. E poi ... eccomi qui. Non ricordo neppure che cosa stessi sognando. Ero rannicchiata da qualche parte. Forse non dormivo. Fa troppo caldo per dormire nelle notti afose e stralunate come queste. Faceva troppo caldo. E poi c’era la luna. Una luna così grande e piena da far perdere la testa. Per questo non dormivo. Me ne stavo sdraiata sull’erba a guardare per aria. Le stelle. E a sognare ad occhi aperti. Oppure no. Guardavo fuori da una finestra. Attraverso i vetri. Attraverso una finestra spalancata da un colpo di vento. Guardavo in faccia la luna. Guardavo la luna. La faccia della luna. Mi specchiavo nella sua faccia d’argento e vi scorgevo il mio futuro. Scrutavo in quella sfera di cristallo e mi vedevo già vecchia, come dentro un sogno. Forse era davvero un sogno.
Sì. Credo di essere vecchia. No. Non lo dico per quello che possa aver visto nello specchio. No, no. Non è per questo. Quel volto avvizzito che mi guardava dallo specchio con occhi spenti non mi apparteneva. Non aveva niente a che vedere con me. Si trattava di uno sbaglio. Un abbaglio. Un miraggio. Una allucinazione della mia povera mente minata dall’attesa. No. Niente di tutto questo. Non è il responso dello specchio a farmi sospettare del tempo trascorso, ma gli strani pensieri che mi frullano nella testa. Che insorgono e si fanno prepotenti tiranni. Pensieri assurdi. Incredibili credenze da vecchia che un tempo irridevo e che oggi invece s’impadroniscono di me. Ricordo, ad esempio, di aver sentito raccontare che in certe notti quando c’è la luna piena è possibile guardarci dentro. Dentro la luna, intendo. Come in una sfera di cristallo. E vedere il futuro ...
Ecco, adesso chissà perché sono certa che la ragazzina sta per mettersi a ridere e a raccontare una storia…
Questa notte ho sentito una vecchia raccontare una storia assurda. Diceva che certe volte è possibile guardare dentro la luna piena, come in una sfera di cristallo. Guardare dentro la luna. E vedere cose del futuro. Dev’essere il caldo a fare questo effetto. O forse l’età ... Le vecchie streghe nelle notti afose come questa perdono il senso della ragione e se ne vanno in giro ululando alla luna discorsi senza capo né coda.
Guardare dentro la luna e vederci il proprio futuro. Ebbene ora questa idea assurda si è riproposta alla mia mente con una tale audacia e prepotenza da farmi vacillare. E a furia di pensarci non solo mi sono convinta che tutto ciò sia del tutto possibile, ma mi pare persino di ricordare che sia realmente accaduto. è come se rivedessi la scena. Ogni volta che ci penso si arricchisce di dettagli. è una calda notte d’estate. La luna piena oscilla paurosamente nel bel mezzo del cielo. Come la boccia di cristallo di un lampadario durante un terremoto. Poi, d’un tratto s’arresta, in alto, immobile sulla mia testa: una cosa tonda e luminosa. Come una enorme palla di vetro piena di fumo e di opache illusioni. Poi, piano piano, il fumo dirada e lo sguardo attraversa la sfera. S’intravede qualcosa nel cuore iridescente della luna. Figurine umane che prendono consistenza, si muovono, parlano, agiscono, compongono quadri viventi, sequenze d’immagini e situazioni. Un piccolo teatrino sorprendente, rapide scenette simultanee che si susseguono svelte svelte, personaggi che invecchiano a vista d’occhio, farse e tragedie che s’intrecciano in vertiginose dissolvenze incrociate, dialoghi complicati, interi atti solo mimati, azioni violente, interminabili attese, un paio di guerre, alcune figure ricorrenti, moltissime comparse, una ridda vorticosa di circostanze che a stento riesco a distinguere, che creano solo confusione ...
La mia testa ... La mia testa è confusa. Non sono più sicura di nulla. Era un sogno quello che ho intravisto nel cerchio di luce della luna? Ricordi. Fantasie. Come in un vortice di luce e di ombre. Qualcosa di enigmatico. Qualcosa di magmatico su cui galleggiare.
Ecco, adesso la ragazzina ride, ride a crepapelle…
Non ci posso credere! La luna! La luna come una sfera di cristallo in cui vedere il futuro! Certo sarebbe bello... Come in una sfera di cristallo... Prevedere il futuro... Ecco, adesso chiudo gli occhi, e cerco di immaginarmelo… Sarebbe bello, sì... davvero bello... ecco, adesso giro su me stessa, lentamente, con gli occhi chiusi e le braccia spalancate… bello, sì... davvero bello... Continuo a girare, girare, girare… con le braccia dischiuse...
Ricordi o fantasie. Reminescenze. Premonizioni. Forse. Come in un vortice. Galleggiavo come trasportata da un flusso inarrestabile di immagini e di suoni. Un’onda che mi avvolgeva. Il flusso della vita. Della mia vita. Come se quel letto morbido su cui giacevo fosse una barca di legno di melograno sul fiume del tempo. Allungando una mano oltre il bordo potevo affondarla nei flutti che mi circondavano e ripescare così i frammenti sparsi della mia vita intera, trascorsa e futura. Come petali di rosa. L’intero corso del tempo su cui scivolavo era in realtà un fiume di petali di rosa. Un petalo per ogni istante, un fiore per ogni accadimento della mia esistenza. Passato e futuro congiunti in un unico ineffabile presente. Congiunta la foce e la fonte in un unico inarrestabile flusso. Ogni cosa aveva un ordine, un senso, un incanto che a me si svelava in quell’interminabile istante. Poi è successo qualcosa. Dev’essere successo qualcosa. Come un’onda violenta e improvvisa che mi ha buttato fuori. Sbalzato sulla riva. Qui, dove sono ora. Sull’orlo della mia vita. Fuori di me. Fuori dal flusso della mia vita. Della mia coscienza. Svuotata di tutto. Di senso. Di memoria. Non ricordo più nulla di me, neppure il mio nome. Sono qui. Smarrita. Su questa riva inaridita. A guardare rifluire la mia esistenza, qui, sotto di me, come acqua che passa. A vedere una faccia riflessa nell’acqua. La mia faccia. Una faccia che non conosco. Che non riconosco. Anonima. Una faccia anonima. Una faccia qualunque. Una faccia vuota, una maschera bianca, neutra, senza volto. Come la faccia della luna. Non mi è rimasto più nulla. Tutto si è sfaldato, disperso, inabissato come in una palude. Il fiume della vita è rifluito dal suo letto e si è disperso nella pianura del tempo in mille sterili rigagnoli. Mi è rimasto soltanto un vago senso di attesa. Non so di che cosa. Mi è rimasto soltanto questo. Come se fosse questo il senso della mia vita. Come se ci fosse questo al fondo della mia vita. Sul fondo. L’attesa. Non so di chi o di che cosa. Forse non l’ho mai saputo.
Ecco, la ragazzina si è accoccolata di nuovo. Ha ripreso a dondolarsi e a canticchiare la sua monotona, ammaliante canzoncina, come risucchiata da quello che continua a vedere nello specchio.
è tutta la vita che aspetto. Quand’ero bambina aspettavo mio padre. L’ho aspettato per anni. Poi si è trattato di aspettare un uomo. Un altro uomo. Il mio. Anche lui l’ho aspettato per anni. è tutta la vita che aspetto. Anche adesso forse sto aspettando qualcuno. Un uomo, credo. Forse il figlio che non ho mai avuto. In fondo non è cambiato nulla. Anche quando aspettavo mio padre era la stessa cosa. Chi stavo aspettando? Mio padre? Niente affatto. Aspettavo l’ombra di mio padre. Uno spettro. Il fantasma di mio padre. La diafana vaga figura di un padre che non avevo mai avuto, né conosciuto. Un padre sempre e soltanto sognato, immaginato, fantasticato. Lo stesso per il mio uomo. Pallida ombra di un uomo sfuggente. Mai posseduto. Anch’egli un fantasma. In definitiva questa mia interminabile attesa si è rivelata una lunga, dolorosa, inesorabile veglia funebre. Una veglia funebre. è tutta la vita che veglio.
Quand’ero bambina aspettavo mio padre. Almeno credo. Credo di aver visto anche questo stanotte, nella sfera di cristallo della luna. Credo che fosse la mia infanzia quella che ho rivisto, stanotte, in un lampo improvviso della coscienza.
C’era una bambina piccola, molto piccola, bionda. Una frangetta le copriva la fronte. Aveva grandi occhi la bimba, pieni di lacrime pronte a sgorgare. C’era un uomo accucciato davanti a lei che le teneva le manine con due dita e parlava, parlava, parlava. Credo che fosse suo padre. Ero io la bambina? L’uomo parlava con voce bassa, pacata. Ma si capiva che era commosso. Cercava di spiegare qualcosa alla piccola. Ma lei non capiva. Le parlava di posti lontani, della guerra, di cose che non avrebbe voluto fare, ma ci era costretto. Del senso del dovere. Della patria. E di altro. Lei non capiva, però annuiva lo stesso. Per non dargli un dispiacere. Aveva sempre pensato che i grandi potessero fare tutto quello che volevano. Significava questo essere grandi: fare tutto quello che si vuole. Almeno questo era quello che aveva creduto sino ad ora. Ora scopriva che non era così. Neanche i grandi erano padroni del loro destino. Neanche loro potevano comprarsi tutti i gelati che volevano o restare alzati fino a tardi. Anche loro avevano dei limiti, delle costrizioni. E questo le faceva rabbia. Le sembrava un imbroglio. Una grande ingiustizia. Ero io quella bambina?
Prima di partire mio padre mi ha chiamato da una parte. Mi ha preso le mani e mi ha parlato. Aveva gli occhi rossi e una voce strana. Ogni tanto guardava la mamma e sorrideva. Ma si vedeva benissimo che non aveva nessuna voglia di ridere. Non me lo ricordo quello che mi ha detto. Mi ha parlato di un lungo viaggio e di altre cose ancora che non ricordo. Ho capito subito che non sarebbe tornato tanto presto. Però non credevo che avrei dovuto aspettarlo così tanto. Quanto tempo sarà che lo aspetto? è già passato molto, moltissimo tempo da quando è partito. Una e - ter - ni - tà. Non lo so perché non torna. Ci sarà qualcosa o qualcuno che non lo fa tornare. Mi manca molto, però. Moltissimo. Il mio papà.
Possibile che fossi io quella bambina? Non ne sono sicura. La mia testa è confusa. I ricordi sfrecciano all’orizzonte, si rincorrono, come stormi di uccelli in fuga, nella luce incerta della sera. Sciamano dalle mie mani. Non riesco ad afferrarli. A trattenerli.
Ecco. La ragazzina si alza, corre alla finestra. Guarda lontano, fuori dalla finestra, oltre le scaglie di luna sparse sul mare e che definiscono a tratti la linea incerta, cangiante dell’orizzonte. La donna lentamente la raggiunge, la stringe tra le braccia, come una madre. La vecchia racconta una storia. La sua storia. Continua a raccontare.
Quando mio padre partì, mia madre mi teneva stretta stretta tra le sua braccia. Mi tenne così finché la nave non divenne un puntino nero inghiottito dalle onde dietro la linea dell’orizzonte. Nessuna di noi due distolse lo sguardo finché la nave non disparve del tutto. Soltanto allora lei si volse a guardarmi e mi sorrise.
Non piangere, mi disse. Io continuavo a guardare l’orizzonte, sebbene non ci fosse più nulla da guardare.
ètardi, mi disse, dobbiamo andare.
Le travi del molo scricchiolavano, di tanto in tanto. Nel cielo spazzato dal vento le nuvole s’inseguivano in ordine sparso. C’era una calma ambigua, irreale. I suoni, le voci erano solo sordi echi lontani.
ètardi. Dobbiamo andare, così mi disse in un sussurro mia madre.
Come?
Proprio così, solo quattro parole: Non piangere. Dobbiamo andare.
Il fragore del mare era assordante, sovrastava ogni cosa. Da principio non mi accorsi neppure che mia madre mi stava parlando.
Come dici? Ero distratta.
Dobbiamo andare, piccola.
Restiamo ancora un poco, mamma. Ti prego.
Non devi aver paura, piccola. Lui tornerà. Il mare è galantuomo. Il mare restituisce sempre, in qualche modo, quello che si prende. Solo è un po’ distratto. Oppure indaffarato. E qualche volta ci mette del tempo. Bisogna avere un po’ di pazienza.
E se tornasse questa sera?
Non questa sera, piccola. Né domani. Bisogna avere pazienza.
Non questa sera. Né domani. Allora tornerò qui ad aspettarlo dopodomani. Va bene, mamma?
Se proprio vuoi aspettarlo, allora c’è un posto migliore di questo.
Mia madre mi spiegò che c’era un posto migliore da cui si poteva scorgere una nave in lontananza. Un posto migliore della banchina del porto. E mi portò a vederlo. Si trattava della Torre.
Ero io quella bambina? Davvero ero io?
Ecco. Adesso la ragazzina torna a sedersi, a dondolarsi, a canticchiare sottovoce.
Probabilmente mia madre era molto preoccupata all’idea che ogni giorno gironzolassi dalle parti del molo. Con tutta quella confusione di marinai e mercanzie da caricare e scaricare. Le grida e gli spintoni. E il via vai di gente di tutte le risme e i colori. Con la paura che qualche rozzo marinaio grande e grosso mi urtasse e mi facesse finire in mare. O ancora peggio che un astuto mercante levantino non mi scambiasse per un capo della sua merce preziosa e mi caricasse sulla sua nave pronta a salpare per le rotte d’Oriente. Per questo, credo, l’indomani stesso mi mostrò la Torre che si ergeva su di un promontorio appena fuori dal paese. Alta, abbarbicata alla roccia, circolare, con muri di pietre a secco, e una scaletta che strisciava lungo la parete di roccia a strapiombo sul mare e che raggiungeva l’ingresso. La Torre. Ebbe inizio quel giorno il tempo dell’attesa. In quel luogo. Questo luogo.
L’attesa. Credo che sia stato proprio il senso dell’attesa a condurmi fino a qui. A ridurmi così. Incapace di ricordare persino il mio nome. Ma capace di reggere alla furia di una tempesta. Sì. Credo che sia stato il senso dell’attesa a condurmi fino a qui. A sorreggermi fino a questo punto. E a distruggermi fino a questo punto. L’arte dell’attesa è un’arte difficile da imparare. Un’arte da funamboli. Un’arte da pazzi che danzano su di una corda tesa, sempre in bilico, sul baratro. Un’arte pericolosa. Tra passato e futuro. Sul filo di lama di un invisibile inafferrabile presente. Sempre e comunque in tensione. Verso qualcosa che non viene, che non sovviene mai. E il tempo che si dilata. Gli istanti sempre uguali. Che vibrano uguali. Come corde tese al massimo. Fino al punto di rottura. Appena prima. Subito prima. Come corde che producono un suono acuto, stridente. Sempre uguale. Tagliente, ripetuto, lacerante. E il tempo che si dilata, fino a strapparsi. Fino all’eclissi. Fino all’istante in cui sprofonda nel nulla. Nel vuoto smisurato di una inaudita, atroce, disumana eternità. Il vuoto dell’attesa. Di una attesa vuota.
Ecco. La donna fissa a lungo la piccola che continua a dondolarsi come una povera autistica e ripete sottovoce la sua alienante filastrocca.
Così all’indomani stesso, e per tutti i giorni che seguirono, presi l’abitudine di venire qui, alla Torre. Tutte le mattine. Appena prima dell’alba. Ad aspettare.
Ecco. Un colpo di vento spalanca ancora una volta la finestra. Di nuovo il lamento della luna inonda la stanza. La piccola s’arresta un istante. La donna questa volta non si muove, assorta com’è nei suoi pensieri. La ragazzina le lancia un’occhiata. Poi, vedendo che l’altra non si muove, è lei stessa che si alza e si avvia lentamente alla finestra. Giunta alla finestra spalancata, la ragazzina anziché richiuderla, vi si affaccia guardando fuori, verso l’orizzonte. La vecchia prosegue il suo racconto come se nulla fosse. Già. Perché la vecchia sta raccontando qualcosa. Non so che cosa. La sua storia, credo.
Tutte le mattine da allora, appena prima dell’alba, presi l’abitudine di scendere giù dalla collina dove se ne sta abbarbicata la nostra vecchia casa di campagna, attraversando di corsa il paese che ancora sonnecchia nella luce incerta dell’aurora, per arrivare fin qua, fino al promontorio subito fuori dall’abitato, dove si erge la Torre. Questa Torre.
Questa mattina presto, appena prima dell’alba, sono scesa, a precipizio, giù dalla collina. Ho corso a piedi scalzi, veloce come il vento, lasciando il sentiero e tagliando per i campi, passando in mezzo all’erba alta fradicia di rugiada, rapida come un torrente in piena, venuto dal nulla, così, improvvisamente, come durante un acquazzone d’estate. C’era una mezza luna sbiadita, vaga, indefinita, come sospesa, campata per aria nel bel mezzo del cielo. L’aria era fredda, pungente, e a respirarla a pieni polmoni faceva male alla gola, ma non m’importava. Ho corso a perdifiato, giù per la collina, facendo a gara con l’aurora a chi arrivava prima. Ho corso giù per i prati veloce e leggera, ho volato, sfiorando appena il tenero fiore dell’erba, svelta svelta come una rondine in picchiata. Ho raggiunto le prime case. Ho attraversato il paese di slancio, senza incontrare nessuno. Ho superato il molo. Anche il molo era quasi deserto. C’erano poche barche. Il resto delle barche era già fuori, al largo, pieno di vecchi pescatori al lavoro. Ho raggiunto il promontorio senza incontrare nessuno. Mi sono arrampicata su per gli scogli. Fino alla scaletta di pietra, che ho salito con passetti svelti e silenziosi, un gradino alla volta. Fino alla porta, che ho aperto con una spinta. Fino alla finestra, questa finestra, che ho spalancato di colpo, con un sol gesto, per poi socchiudere gli occhi e respirare profondamente. E planare, planare dolcemente, così, come se fosse del tutto naturale. Planare come un uccello sopra questa enorme pianura d’acqua che si apriva sotto il mio sguardo, a perdita d’occhio, come un prato senza fine di fiori azzurri nella luce dell’alba. Questa enorme pianura d’acqua che si apre anche adesso, sotto il mio sguardo, oltre questa finestra.
è un posto speciale questo. Ci sono tre grandi finestre. L’una dà sulla campagna. Guardando bene tra macchie d’arbusti e colline s’intravede la casa di campagna della mia famiglia. La seconda finestra si affaccia dalla parte del paese e del molo. La terza permette allo sguardo di spaziare verso l’orizzonte e il mare aperto. è sempre stata quest’ultima la mia preferita. Il mio punto d’osservazione.
Sono confusa. Dev’essere passato moltissimo tempo da allora. Ero io quella bambina? Possibile che fossi io? Dev’essere successo qualcosa nel frattempo. Qualcosa d’inaudito, che ha infranto il flusso regolare delle cose. Il lento concatenarsi degli accadimenti. Eppure io sono ancora qui. In quella Torre maledetta. A quella finestra. Questa finestra. C’è qualcosa che mi sfugge. Un’interruzione. Una frattura. Una smagliatura nella perfetta, compatta tessitura della mia vita. Un anello mancante. Un vuoto. Una lacuna. Un salto temporale. Qualcosa che non capisco. Qualcosa che mi sfugge. Qualcosa che ha interrotto l’attesa. Non ricordo. Forse lui è arrivato. Forse, è tornato. Comunque dev’essere successo qualcosa. Per forza. Qualcosa d’inaspettato.
Come è volato il tempo davanti a questa finestra! Certe mattine, se arrivavo un po’ prima del solito, potevo ancora scorgere la sagoma delle ultime barche salpate dal porto nel cuore della notte che stavano per scomparire all’orizzonte. Poi per alcune ore non accadeva più nulla. Salvo le rare acrobazie dei pellicani e dei gabbiani a caccia di pesce. Di tanto in tanto l’ombra di qualche nave attirava la mia attenzione ...
Una vela! Una vela! All’erta capitano, si scorge una vela laggiù, lontano, sulla linea dell’orizzonte! Tutti ai posti di combattimento. Si prepari ogni armamento: musica, palloncini, gelati, pasticcini. Si prepari ogni cosa per un gran ricevimento!
Sì. Di tanto in tanto qualche vela compariva all’orizzonte. Ma si trattava quasi sempre di un falso allarme.
Falso allarme, capitano ... La nave avvistata scivola via, lontano, sulla scia dell’orizzonte, prosegue imperterrita per la sua rotta. Senza fare neppure una virata. No. Non vuol saperne di questo porto. Possiamo riporre nella stiva musica, gelati e palloncini ... Tutto sotto coperta.
Talvolta però qualcuna di queste navi virava e puntava dritto dritto verso il nostro piccolo porto. Bisognava fare in fretta allora: saltare giù dalla finestra, scendere per la scaletta, e correre fino al molo. Al molo c’era sempre qualcuno che sapeva di chi era la nave che arrivava, perché attraccava, che cosa o chi portava. Al molo c’era sempre qualcuno che aspettava. Un giorno vi trovai mia madre. Quel giorno seppi che c’era lui su quella nave. Lui che tornava. Lui. Mio padre. Non ci fu bisogno di chiedere niente a nessuno quel giorno. Strano, no? Le cose non vanno mai come te le immagini.
Ecco. Le cose non vanno mai come uno se le immagina. Mai. Nemmeno se te le immagini in mille modi diversi. Nemmeno se te le immagini nei minimi particolari. è così. Probabilmente lui è tornato. Ma le cose non sono andate come mi aspettavo che andassero. Come le avevo immaginate, mentre me ne stavo protesa, sporgendomi dal davanzale di questa finestra che si affaccia sull’ignoto. In attesa. Appoggiata al davanzale di questa finestra che si affaccia sul mio destino.
Quanto tempo è trascorso davanti a questa finestra! In attesa. Quand’ero bambina aspettavo mio padre. Aspettavo che tornasse dalla Grande Guerra. Poi si trattò di aspettare il mio fidanzato, di ritorno da un’altra Guerra. Meno nobile forse. Meno grande. La Guerra d’Africa. Guerra coloniale. Guerra di conquista. Ma non meno pericolosa. Non meno mortale. Tutte le mattine, subito dopo l’aurora, scendevo giù per la collina, con un passo diverso, rispetto a quello d’un tempo, più lento e sinuoso. Raggiungevo il paese, il porto, la Torre. I miei piedi conoscevano la strada a memoria. Potevo farla ad occhi chiusi. Il paese brulicava di donne affaccendate. Il sole era già sorto, quando alla fine mi affacciavo alla finestra. A questa finestra. Le barche partite nella notte erano già lontane, al largo. Invisibili oltre la linea dell’orizzonte. Anche il mio sguardo era diverso. Diverso il tuffo al cuore ogni volta che una nave appariva all’orizzonte. E, in più, la paura. Paura che non tornasse. Paura che mi scordasse. Paura che morisse. Quand’ero bambina invece non avevo paura. Ero sicura che mio padre sarebbe tornato. Sicura. Me l’ero immaginato tante di quelle volte il suo ritorno che ancora adesso ci credo. Ancora adesso mi sorprendo a pensare che davvero le cose siano andare come me le ero figurate.
No. Le cose non vanno mai come uno se le immagina. Mai. L’immaginazione è un trucco. Una trappola. Cattura i sogni e li snatura. Li fa girare in tondo. In tondo, in tondo. Sempre più svelti. Finché non si confondono.
Ecco, adesso la ragazzina prende per le mani la donna la fa girare in tondo, intanto canticchia…
Giro, giro tondo
Mio padre è partito
Partito per il mondo
Ma poi farà ritorno
Giro giro tondo
Vedrai sarà un bel giorno
Giorno giocondo
Giro giro tondo
In giro per il mondo
Ma il mondo è rotondo
E lui farà ritorno
Giro giro tondo
In barca per il mondo
Ma il mondo è rotondo
E lui farà ritorno
Giro giro tondo ...
Ecco, adesso la donna mentre viene trascinata nel crescendo del girotondo, ripete sottovoce: No. Le cose non vanno mai così come te le immagini. No. Mai. Le cose non vanno mai …
All’improvviso la bimba lascia andare la donna, che, frastornata, cade a terra. Come svenuta.
Quando lui tornerà, ci sarà la banda sul molo ad aspettarlo. Il sindaco, il prefetto e tutte le autorità in abiti da cerimonia. E dei bambini con dei mazzi di fiori. La nave attraccherà tra gli applausi della gente sulla banchina. Lui sbarcherà tra due ali di folla. Lo solleveranno. Lo porteranno in trionfo. E allora io griderò a tutti: «Quello è il mio papà! Quello è il mio papà!». Allora solleveranno anche me. E ci porteranno entrambi in trionfo fino alla Torre. Lì ci saranno tavole imbandite e un complessino di musica jazz che suonerà per tutta la notte. Ci sarà sempre un sacco di gente intorno a lui a chiedergli della guerra, a farsi raccontare per filo e per segno ogni volta da capo ogni particolare. E lui che ogni volta ripeterà le stesse cose, con il medesimo ardore. Cose da grandi. Cose che non capisco e non m’importa capire. Io mi siederò, buona buona, in un cantuccio. Ad aspettare. «Ho aspettato tanto,» mi dirò, sottovoce, senza mai staccargli gli occhi di dosso, «posso aspettare ancora un poco. All’alba tutta questa gente si sarà stancata. Se ne sarà andata. All’alba lui avrà un po’ di tempo anche per me. Posso aspettare». E così accadrà. All’alba anche gli ultimi tiratardi finalmente se ne andranno, ubriachi di vino e di storie ingurgitate. Lui sarà stanco di ripetere a tutti le sue avventure di guerra e di mare. Avrà spalancato la finestra che si affaccia sull’aurora, e se ne starà lì, appoggiato al davanzale, a respirare a pieni polmoni l’aria e la luce che sale a quell’ora dal mare. Avrà negli occhi il ricordo di tutti quegli anni trascorsi lontano da casa: una luce di riso e di pianto. E uno sguardo strano, diverso. Che non si posa sulle cose, ma solo le sfiora, leggero come un soffio di vento. Allora, solo allora, io mi alzerò dal mio cantuccio. Piano piano mi avvicinerò. Scivolerò in silenzio alle sue spalle. Lui mi vedrà con la coda dell’occhio. Si volterà di scatto. E rimarrà di sasso. Al posto di quel ruscelletto rinsecchito di ragazzina striminzita, che aveva lasciato anni prima, si ritroverà davanti un fiume lento di ragazza in piena, che si muove con passo misurato, sinuoso e sicuro di sé, nella pianura della vita. Sì, sì. Proprio così. Un fiume lento e sinuoso ... lento e sinuoso ... lento ... e sinuoso ... lento e sinuoso ...
Credo di aver passato molto del mio tempo in questa Torre. Fin da quando ero bambina. Ad aspettare. Sì. Credo di aver passato davvero molto tempo qui dentro. A fantasticare. Ad immaginarmi cose che non sarebbero mai accadute. Era bello, però. Almeno credo. Era un gioco. Qui dentro. In questa stanza circolare. In balìa di un tempo che non passava. Che non passa. E che pure, al tempo stesso, volava. Che vola. Un tempo circolare. Che tornava sempre sui suoi passi. Che non andava mai avanti. Che ogni giorno mi riconduceva qui dentro. Dentro questa stanza circolare. A quella finestra che si affaccia sul mare. Anche il mare sempre uguale. Così diverso ogni giorno che passa. Eppure sempre lo stesso. Lo stesso cielo. Lo stesso numero di passi che misurano il perimetro di questa stanza. Gli stessi inutili passi di danza. Danza di un tempo che passa e che non passa. Danza d’inquieta pazienza. Danza in girotondo sull’orlo del mondo. Danza circolare. Danza in girotondo.
Giro giro tondo
Mio padre è partito
Partito per il mondo
Ma il mondo è rotondo
E lui farà ritorno
Giro giro tondo
Vedrai sarà un bel giorno
Un giorno giocondo
Giro giro tondo ...
Com’ero ingenua un tempo.
C’è stato un tempo in cui credevo che tutto fosse possibile. Quanto tempo è passato da allora?
Tanto tempo fa. Ero solo una bambina allora. Una bambina piena di sogni e fantasia.
La ragazzina mentre continua a canticchiare, compie lente evoluzioni girando su se stessa, eseguendo una sorta di ipnotica danza circolare. Un sirtaki. O qualcosa del genere.
è strano. è come se tutto questo fosse stato soltanto ieri. Eppure ieri è come precipitato in una voragine oscura di anni.
Proprio così. Ero una bambina piena di fantasia, capace di lasciarsi trasportare dai propri sogni per giorni e giorni, fino a raggiungere territori remoti e straordinari ...
Allora credevo che ogni mio sogno, ogni mio desiderio, potesse divenire realtà, così, naturalmente, come semplice conseguenza di un esercizio della volontà. Ne ero sicura.
La ragazzina accenna ad una corsa tutto intorno alla stanza, con gli occhi chiusi e le braccia aperte.
Scorrazzavo in lungo e in largo nei prati e nei boschi dell’entroterra, con gli occhi chiusi e le braccia spalancate, immaginando di volta in volta di essere lepre, delfino, nuvola bianca, farfalla, pellicano, onda del mare, veliero.
Tutto questo sembra ad appartenere ad un passato prossimo eppure già così remoto. Possibile che quell’ombra di felicità anche solo sfiorata, sognata, presagita si sia già dissolta nel nulla?
Sono stata lepre, delfino, nuvola bianca spazzata dal vento, farfalla variopinta, pellicano, onda della tempesta, o veliero che corre veloce sul mare ... Sì, lo so. Era solo un gioco. Un sogno. Però era bello. E scacciava i cattivi pensieri. Certe volte servono anche i sogni. Sono zattere a cui aggrapparsi per evitare di andare a fondo.
Ah! Quante volte mi sono piantata lì, a quella finestra. Con i gomiti appoggiati al davanzale. Mi sentivo mettere radici. Davvero. Mettere radici. Germogliare. Fiorire. Crescere. Nell’attesa. Come un’agave abbarbicata ad uno scoglio. In riva al mare.
Quanto tempo sarà passato da allora? Strano, però. Tutto questo mi sembra appena accaduto. Eppure dev’essere passato molto tempo. Dev’essere questo posto che gioca certi scherzi. Questo posto. Questa stanza circolare. A furia di girare in cerchio può capitare d’imbatterti in quella che eri un tempo. O in quella che sarai domani. E scopri che il tempo passa, ma ci sono cose che non cambiano mai.
Allora ancora non immaginavo quanto potesse essere pericoloso vivere così a lungo di sogni. Né quanto potesse poi essere doloroso venire strappata da lì. Da qui. Essere sradicata da quella terra di sogno dove ero cresciuta. Terra da cui avevo tratto nutrimento. Terra che era, in fondo, tutta la mia vita.
Ecco. Forse le cose non sono cambiate. Forse i sogni continuano ad essere zattere a cui aggrapparsi. Per evitare di andare a fondo. Forse è questo che sta accadendo. Anche adesso. Zattere sull’oceano dell’inquietudine. Appigli sull’orlo di un abisso. Rimedi passeggeri. I sassi di un guado. Qualcosa a cui appoggiarsi per poi passare oltre. Oltre le correnti rapinose di certi momenti torbidi, oscuri.
Certi sogni sono come nuvole che attraversano il cielo nelle notti d’estate. Nuvole bianche, rapide e leggere. Scorrono davanti alla luna e ne assorbono la luce per intero. E per intero la restituiscono. Macchie di luce che galleggiano sopra il blu della volta celeste. Nuvole passeggere. Altri sogni, invece, sono isole galleggianti.
Sì. Certi sogni sono pericolosi. Come droghe leggere. Leggere e inebrianti. Ti aiutano a vivere. A sopportare la noia. L’attesa. La noia dell’attesa. E sembrano non avere controindicazione. Ma alla lunga ti fregano. Danno assuefazione. Assuefazione mentale. Una specie di assuefazione musicale. Come un ritornello che ti entra nella testa. E finisce che non puoi più farne a meno. Ti intrappolano in una rete di filo di seta, sottile, invisibile, inafferrabile, ma tessuto a maglie così fitte da non lasciarti scampo. Più ti agiti e più ti stringe. Una rete di sogni. Fatta di niente. Di parole e di silenzi. Di immagini ricorrenti. Di echi. Di sordi e lontani lamenti. Di lenti, reiterati movimenti. D’incantagioni. Di tempi dilatati, sprofondati. Di eterni presenti. Ma da principio non te ne rendi conto. Credi che il processo sia reversibile. T’immagini che se entri in un posto sia poi possibile uscirne. Ne sei sicura. «Se sono entrata, in questo sogno, potrò sempre uscirne». E’ questo quello che pensi. Ma t’inganni. E nel giro di pochi anni sei in trappola. Perduta. No. Le cose non vanno mai come te le immagini.
E poi ci sono certi sogni che sono come la fiamma di una candela. Lampeggiano nel buio, ma sono incerti. Tremano. Cambiano continuamente forma e colore. E catturano lo sguardo.
No. Le cose non vanno mai come uno se le immagina.
Uno si sforza. Si concentra. Cerca di considerare nei dettagli tutte le possibilità. Ma poi c’è sempre qualcosa che gli sfugge. Un particolare imprevisto. Una piccola smagliatura nella trama immaginata, tessuta con pazienza, ordita con cura. Un nonnulla. Una minuscola sfasatura. Qualcosa però che è sufficiente ad incrinare irrimediabilmente il quadro generale degli avvenimenti. Così l’ordine delle cose ne risulta sconvolto. Mutato il senso. La realtà è una preda imprevedibile. Non cade facilmente nelle trappole dell’immaginazione.
Il giorno in cui mio padre fece ritorno le cose andarono molto diversamente da come me le ero figurate. Sì. Molto diversamente. Non so perché proprio ora questo ricordo mi sia tornato alla mente.
Quand’ero bambina ero sicura che fosse possibile evadere da questo interminabile sogno che m’imprigiona da sempre. Da sempre. Da quando mio padre è partito. Credevo di conoscere il punto esatto in cui le maglie della rete si sarebbero allentate. Il momento esatto. Il giorno. L’ora. Ovvero quando mio padre fosse tornato. Ne ero sicura. Si sarebbe sciolto allora, proprio allora, in quel preciso istante l’incantesimo. E avrei spiccato il volo. Avrei ripreso a vivere. A vivere. Vivere davvero. Non sognare di vivere. Non vivere di sogni. Vivere e basta. Vivere.
No. Le cose non vanno mai come uno se le immagina. Ma dev’esserci stato un momento, ad un certo punto ...
Poi, in seguito, ci fu un altro momento. Un momento in cui ebbi la netta sensazione che davvero finalmente stessi per svincolarmi da questo interminabile sogno che da sempre mi avvinceva. Netta la sensazione che stesse per avere termine l’interminabile attesa. Il giorno delle mie nozze. Anzi, per l’esattezza, la notte precedente.
Questione di un istante. Di un lampo. Di un barlume di speranza. Di una folata di vento. Per un istante la fiamma che da sempre mi ardeva in petto è parsa dissolversi. Un alito leggero l’aveva come annullata. Per un istante ho assaporato una sensazione del tutto nuova di libertà. Come un vuoto improvviso che si apriva nella mia vita. Una cosa da togliere il fiato. Uno spazio vuoto che avrei potuto riempire con qualunque cosa. Oppure lasciarlo così. Un piccolo spazio vuoto, in fondo al mio cuore. Una zolla di terra da cui era stata strappata, sradicata un’erba maligna. Terra pronta per essere di nuovo coltivata.
Fu l’impressione di un istante. Impressione fugace. Subito dissolta. La fiamma che mi divorava parve per un istante spegnersi, morire. Ma subito dopo, trattenuto il respiro, riprese a divampare. Più di prima. E di nuovo mi consumava il fuoco dell’attesa. Sì. È andata così. È accaduto in una tiepida notte di primavera, mi pare. La notte prima delle mie nozze. Certe volte quella notte mi sembra tuttora presente. Come se dal circolo vizioso di quella notte incantatrice non fossi mai uscita. Strano, no? Come se fosse appena trascorsa. Anzi, come, se fosse ancora in corso. Eppure dev’essere passato del tempo. Equivoci della memoria. Prodigi di una storia che è rimasta come appesa. Qui. Come sospesa. Irrisolta. Questa storia. Un circolo vizioso. Un lento, ubriacante girotondo. Questa storia. La mia storia. Storia d’amore e di morte.
Quanto tempo è passato da allora? Forse è appena accaduto. Forse ancora non è passata quell’interminabile notte. Forse quella fiamma maligna che mi brucia in petto ancora vacilla, minacciata da un soffio d’inattesa, inaudita speranza. Sì, ma speranza di che cosa? Non ricordo. Non sono sicura. Credo che ci fosse di mezzo un uomo. Un ragazzo. Ma non ne sono sicura. Tutto è così confuso nella mia testa. Speranza di una vita migliore. Una nuova vita. Tutta da inventare, da costruire.
La mia storia! Un lento, ubriacante girotondo. Un monotono ripetersi di giorni e situazioni. Salvo poche eccezioni. Pochissime eccezioni. Quando tornò mio padre, ad esempio.
Ecco, di nuovo la parola “girotondo” fa scattare come una sorta di automatismo nella mente della piccola la quale attacca ancora una volta a canticchiare sottovoce la solita canzoncina
Giro giro tondo
Il mondo è rotondo
Mio padre è partito
In giro per il mondo
Ma il mondo è rotondo
E presto verrà il giorno
Che lui farà ritorno
Giro giro tondo ...
Quando mio padre tornò il filo inestricabile degli avvenimenti si dipanò in un modo del tutto imprevisto. No. Nulla davvero accadde nel modo in cui me l’ero prefigurato. Sebbene a quella fantasia avessi dedicato quasi ogni mia energia, ogni mio sforzo, nei giorni dell’attesa.
Quando mio padre tornerà ci sarà la banda sul molo. Il sindaco, il prefetto, e tutte le autorità. E bambini con i mazzi di fiori. Sì, sì. Andrà proprio così. Ci sarà musica nell’aria. E una grande eccitazione.
Certo, era pieno di gente giù al molo. C’era la banda. E c’erano le autorità in abiti da parata. C’erano addirittura i bambini con i fiori. D’accordo. Tutto come avevo immaginato. Ma serpeggiava tra tutti una strana commozione.
Il sindaco. Il prefetto. La banda. E i bambini con i fiori… Il sindaco. Il prefetto. La banda. E i bambini con i fiori… Il sindaco. Il prefetto. La banda ...
Mia madre aveva gli occhi lucidi. E quando parlava aveva una voce bassa, pacata, che non la avevo mai sentito. Sembrava un’altra persona. Si muoveva lentamente. Con gesti misurati. I suoi occhi erano lontani, assenti. Come velati da un’ombra. C’era qualcosa di nuovo in lei. Qualcosa d’inaudito che calamitava la mia attenzione. Tutto intorno a lei sembrava ruotare attorno al ritmo delle sue mani, della sua voce. Oscuramente. Persino la musica chiassosa della banda. Persino l’insulso, convulso chiacchiericcio delle comari che la circondavano. Persino le azioni solenni e formali del sindaco e del prefetto. Il ritmo e la cadenza delle loro azioni. Tutto sembrava essere, oscuramente, in accordo con il ritmo e la cadenza di ogni gesto, di ogni parola, di ogni movenza di mia madre. Mia madre.
Il sindaco. Il prefetto. La banda. E i bambini con i fiori… Il sindaco. Il prefetto ...
Mia madre era il cuore oscuro, pulsante dell’intero universo radunato lì intorno, quella mattina, su quel molo scricchiolante, in attesa di un uomo. Un uomo. Mio padre. Ero stupita, spaesata. Spiazzata. No. Tutto questo non me l’ero figurato. Non in questo modo. Avevo immaginato una grande confusione. Un via-vai di uomini che andavano e che venivano. Grida. Risate. Parapiglia. Quelli della banda che accordavano a turno i loro strumenti. Marmocchi che s’intrufolavano tra le gambe degli adulti. Ed altri aggrappati alle gonne delle madri. Gente che si chiamava, che si cercava. Gente che si perdeva in mezzo ad altra gente. Ragazzotti in maniche di camicia che fischiavano appresso alle ragazze. E ragazze coi ventagli che si davano delle arie. Insomma un caos elettrizzante. Ma non quella sommessa, serpeggiante commozione. Non quella compostezza. Non quell’armonia. Non quell’accordo di fiati sospesi in oscura, sorda sintonia con il respiro di mia madre. Con il ritmo del suo respiro. Ero come ipnotizzata. Poi la nave attraccò.
La nave attraccherà tra gli applausi scroscianti. E lui sbarcherà tra due ali di folla. Lo solleveranno di peso. Lo porteranno in trionfo. Io subito tra tutti lo riconoscerò e griderò a squarciagola: «Quello è il mio papà. Quello è il mio papà!» Allora solleveranno anche me. E ci porteranno in trionfo fino alla Torre. Sì, sì. Andrà proprio così. La nave attraccherà ...
La nave attraccò. La ressa sulla banchina si fece più densa, schiacciante. Mi ritrovai sballottata avanti e indietro. Rischiai persino di cadere in acqua. Sentii qualcuno che gridava: «Eccolo! Eccolo!». Cercai di farmi largo tra la folla. Mi alzai sulla punta dei piedi, per cercare almeno di vederlo. Ma nulla. Non vidi nulla. Ad un certo punto quell’ammasso di uomini, donne e bambini, incominciò a muoversi. Da principio sembrava non avere una direzione precisa. Pareva quasi ondeggiare. Poi, inesorabilmente, cominciò a rifluire. S’incanalò. Divenne una sorta di lento corteo. Pensai allora che lui, probabilmente, fosse già passato. Portato di peso, in trionfo, da quella folla straripante. Non ebbi né tempo né modo di decidere se seguirlo o meno, che già la fiumana mi trasportava. Come il tronco di un albero trascinato a valle dalla corrente. Così mi ritrovai poco dopo ai piedi della Torre. Scaraventata fuori all’improvviso dal flusso principale. Buttata lì, sulla riva. Come una scoria. Ai margini di quella storia. Ai margini di questa storia. Questa, che in fondo è la mia storia. Inutile anche solo provare a salire su per quella scala. Inutile tentare di risalire la corrente, laddove s’ingorgava. Su per quei gradini di pietra che tante volte avevo salito, svelta svelta, lungo tutti quegli anni di attesa. Puntualmente. Ogni mattina. Appena prima dell’alba. E ora, invece, nulla. Tutto era inutile. La scaletta troppo stretta, ingombra di una folla che vi si intratteneva. Che saliva o che scendeva. E che si intratteneva. A discorrere. A discutere. A disquisire. Così mi sedetti buona buona sull’ultimo scalino. Ad aspettare. Con le spalle appoggiate al muro. Con le spalle al muro.
La nave attraccherà tra gli applausi scroscianti. E lui sbarcherà tra due ali di folla. Lo solleveranno di peso. Lo porteranno in trionfo. Io subito tra tutti lo riconoscerò e griderò a squarciagola: «Quello è il mio papà. Quello è il mio papà!» Allora solleveranno anche me. E ci porteranno in trionfo fino alla Torre. Sì, sì. Andrà proprio così. O forse no. Forse ci sarà così tanta gente intorno a lui che neppure riuscirò a raggiungerlo. Sì. Ci sarà sempre un sacco di gente intorno a lui, nella Sala Rotonda in cima alla Torre. E tavole imbandite. E un complessino di musica jazz che suonerà canzonette per tutta la notte. E tutti a chiedergli della guerra. A farsi raccontare per filo e per segno ogni minimo particolare. E lui che andrà ripetendo a tutti le medesime storie, col medesimo entusiasmo, per tutta la notte. Storie da grandi. Storie che non capisco, e che non m’importa capire. Così io mi siederò buona buona in un cantuccio. Ad aspettare. «Ho aspettato tanto», mi ripeterò sottovoce, «Posso aspettare ancora. All’alba tutta questa gente si sarà stancata. All’alba tutta questa gente se ne sarà andata. All’alba lui mi starà ad ascoltare. Sì. Posso aspettare».
«Ho aspettato tanto», mi dissi sottovoce, «Posso aspettare ancora. E’ tutta la vita che aspetto. Posso aspettare ancora». Ironia della sorte. Anche ora che lui era tornato, io ero ancora una volta costretta ad aspettare. Davvero aspettare dev’essere il mio destino. Sempre e comunque. Anche quando non c’è più niente o nessuno da aspettare. Niente o nessuno.
Ho aspettato tanto. Posso aspettare ancora. All’alba tutta questa gente si sarà stancata. All’alba tutta questa gente se ne sarà andata. All’alba lui mi starà ad ascoltare. Sì, sì. Posso aspettare. Ho aspettato tanto. Posso aspettare ancora. All’alba ...
Così mi sedetti buona buona sull’ultimo gradino. Con le spalle al muro. Poi credo di essermi addormentata. Proprio così. Addormentata. Perché ad un certo punto, quando mi svegliai, era già notte fonda. La scaletta era deserta. Il fragore costante, assordante dei grilli sovrastava il rumore della risacca che saliva a folate dal mare. La notte era chiara. C’era la luna. Anche se io non la vedevo. Coperta com’era dal profilo imponente della Torre che mi sovrastava. Ma vedevo l’ombra che proiettava dalla Torre e dentro cui mi muovevo. E poi ne scorgevo il bagliore riflesso sulle scaglie del mare appena increspato dal vento. Salii quelle scale lentamente. Molto lentamente. Ricolma di trepidazione. Come per godere più intensamente di quella strana sensazione che mi formicolava su per le gambe e si annidava nel mio basso ventre come un fremito di curiosa, eccitante impazienza. Il tempo si deformava. Si dilatava. L’eccitazione dilagava in ogni fibra del mio corpo. M’inebriava. In quello stato giunsi in cima alle scale. La porta era aperta. Gettai uno sguardo all’interno. La luce della luna inondava l’enorme stanza circolare. Enorme. Circolare. E vuota. Vuota. Non c’era nessuno in quella stanza. Nessuno. Un’enorme stanza vuota mi fissava con occhi spenti. Ebbi un senso di smarrimento. «Se ne sono andati tutti», pensai. «Mi hanno lasciata sola». E poi: «Anche lui se n’è andato». Una profonda delusione mi attraversò, come una folata improvvisa di vento. La finestra si era spalancata. Quasi non me ne ero accorta. Inconsciamente colei che io ero stata si mosse verso quella finestra inondata dalla luce della luna. Inconsciamente io la richiusi. Con gesti lenti e misurati. Come un automa. Poi vidi qualcosa con la coda dell’occhio che calamitò la mia attenzione. Qualcosa. Non so che cosa. Un vago bagliore biancastro riflesso nello specchio. C’era uno specchio collocato tra due delle tre finestre. Uno specchio ovale. C’era qualcosa riflesso nello specchio. Qualcosa d’inaudito. Un’apparizione. Mi avvicinai per vedere meglio. Per mettere a fuoco il prodigio di quella improvvisa apparizione. Mi parve una ragazza vestita di bianco. Mi assomigliava. Ma fu la visione d’un istante. Mi voltai di scatto per vedere di dove venisse quell’immagine riflessa, ma nulla. Non vidi nulla. La ragazza era già scomparsa. Dissolta nel nulla. Nella penombra di quella stanza. Fu allora che vidi il catafalco. Al centro della stanza.
Giro giro tondo
Mio padre è partito
Partito per il mondo
Ma poi farà ritorno ...
Non so per quale strana, improvvisa associazione mi tornarono alla mente le parole di mia madre il giorno in cui era partito mio padre: «Il mare è galantuomo. Restituisce sempre, in qualche modo, quello che si prende».
Il mare è galantuomo. Il mare restituisce sempre, in qualche modo, quello che si prende.
Giro giro tondo
Mio padre è partito
Partito per il mondo
Ma il mondo è rotondo ...
C’era un tavolo al centro della stanza, circondato da quattro lunghe candele accese. Una candela per ogni angolo. Facevano poca luce. Una esigua fiammella s’innalzava da ciascuna di esse. Per questo da principio non le avevo notate. Sul tavolo c’era qualcosa. Qualcosa che era stato coperto con un lenzuolo bianco. Qualcuno.
Il mare è galantuomo. Il mare restituisce sempre, in qualche modo, quello che si prende.
Giro giro tondo …
Non potevo capacitarmi. Che cosa ci faceva il corpo d’un uomo coperto da un lenzuolo, su quel tavolo, nel mezzo di quella stanza? Mi girava la testa. Mi mancava il respiro.
Giro giro tondo … Il mare è galantuomo. Il mare …
Tutto questo non aveva alcun senso. Quella era la festa per mio padre. Per il ritorno di mio padre. Che cosa c’entrava quell’uomo disteso sopra un tavolo, coperto da un lenzuolo?
«Forse è un ubriaco», pensai. «Un invitato che ha alzato un po’ troppo il gomito ed è finito lungo e disteso sopra il tavolo. Qualche burlone, poi, deve averlo coperto, come un cadavere, per fargli uno scherzo». Così pensai. E mi avvicinai per guardarlo meglio. Fissai il mio sguardo sul suo petto, per vedere se questo si sollevava al ritmo del respiro. Ma nulla. Era immobile. Fermo. Inanimato.
Quell’uomo era morto. Morto. Non riuscivo a capacitarmi. Come un automa mi mossi in direzione del cadavere. E, senza neppure rendermene conto, con un gesto della mano lento e misurato, sollevai il lembo di lenzuolo che gli copriva il volto. Si trattava di mio padre. Mio padre!
Giro giro tondo
Mio padre è partito
Partito per il mondo
Ma il mondo è rotondo ...
Il mare restituisce sempre in qualche modo, quello che si prende. Sempre. In qualche modo.
Mio padre. Era mio padre l’uomo sul tavolo, coperto da un lenzuolo. Mio padre. Morto. Adesso tutto era chiaro. Tutto acquistava un preciso, diverso significato. La luce della luna inondava la stanza e io finalmente vedevo con chiarezza le cose come stavano. Come erano andate veramente. Comprendevo ogni cosa. La strana commozione che serpeggiava sul molo, tra la folla. La voce e i gesti mutati di mia madre. Quel bisbigliare fitto fitto delle donne. La compostezza della banda. Delle autorità. Tutto ora mi era chiaro, in quella notte stralunata. Quella che avevo creduto la festa di benvenuto per il ritorno di mio padre era, in realtà, la mesta cerimonia del suo funerale. Mio padre era morto.
Giro giro tondo
Mio padre è partito
In giro per il mondo
Ma il mondo è rotondo
E lui farà ritorno
Giro giro tondo
Dal giro intorno al mondo
Vedrai sarà un bel giorno
Giro giro tondo
Il giorno più bello
Il giorno più giocondo
Il giorno del ritorno
Giro giro tondo ...
Giro giro tondo ...
No. Le cose non vanno mai come uno se le immagina.
Ecco adesso la donna, l’ombra di donna si muove ancora, silenziosa. Torna nella posizione iniziale, in piedi accanto alla finestra. Si arresta, un dubbio le attraversa la mente.
Era mio padre quell’uomo?
Dopo tutto ciò che vidi e provai in quella notte maledetta di luna piena, ero sicura che mai e poi mai avrei avuto il coraggio di tornare ancora una volta alla Torre. Questa Torre maledetta. Ma no. Le cose non vanno mai come uno se le immagina…
Non capisco. Ci sono cose che riaffiorano alla mia memoria questa notte, e io non ne capisco la ragione. La connessione. Brillano all’improvviso sulla superficie levigata della mia mente. Senza preavviso. Senza motivo apparente. Immagini che irrompono, che scalzano quelle precedenti, senza che io faccia in tempo ad afferrare, a fissare né le une né le altre. Effimere sequenze apparentemente irrelate. Libere associazioni della mia mente. Ecco. Anche adesso qualcosa sta accadendo.
No. Non avrei mai creduto di salire ancora una volta su per quelle scale. Di entrare di nuovo in quella stanza. Questa stanza. E invece accadde poco tempo dopo. Accadde a causa di un ragazzo. Ecco. Ora anche questo nodo si scioglie. Si dipana di nuovo, di qui il filo della memoria. Scorre tra le mie dita. Si ricompongono sotto i miei occhi la trama e l’ordito di quei giorni sfilacciati, di quel brandello della mia vita lacerata.
Una scena riaffiora dalle acque oscure della memoria. Una scheggia di quelle fantasmagorie iridescenti che ho veduto questa notte nella sfera di cristallo della luna. Il riflesso di un sogno balenato per un interminabile istante nel buio della mia coscienza. Un sogno, forse, chissà ... forse l’intero corso della mia esistenza colto in un lampo improvviso e inaudito, in vorticosa sequenza ...
Lo vidi per la prima volta un pomeriggio giù al porto.
Ci sono tre vecchi pescatori che rammendano reti. Giù al porto. Seduti su di una panca di legno. E c’è una ragazzina poco distante. Seduta in disparte. La ragazzina ha un volto familiare.
Sì. C’erano dei vecchi pescatori seduti su di una panchina lungo il molo. Rammendavano reti strappate, consunte, usurate dal tempo. Io me ne stavo seduta in disparte. E li guardavo.
Sono io quella ragazzina? Possibile che sia io?
Ad un certo punto uno dei vecchi sollevò lo sguardo ed abbozzò un sorriso. Dall’altra parte del molo c’era un ragazzo che avanzava trafelato nella loro direzione. Le braccia piene di una massa informe di vecchie reti da riparare.
Ecco. Uno dei tre vecchi solleva lo sguardo. Abbozza un sorriso. Dall’altra parte del molo c’è un ragazzo che avanza trafelato nella loro direzione. E’ quasi sommerso da un ammasso informe di reti da aggiustare. Le tiene tra le braccia protese e barcolla. Il ragazzo lancia un grido ai vecchi. Una sorta di richiamo. Un saluto. Il vecchio risponde al saluto con un cenno della mano. Ma ... che succede?
Il ragazzo lanciò un grido di saluto. Mi voltai verso il vecchio e lo vidi rispondere al saluto con un cenno della mano. Mi rigirai verso il ragazzo, ma ... nulla! Non c’era più nessuno. Il ragazzo era scomparso.
E’ scomparso! Era lì, un istante fa. E ora è scomparso. Inghiottito dal nulla. Che cosa è accaduto?
Inghiottito dal nulla. In quel preciso istante udii qualcosa, come un grido soffocato. Poi un tonfo sordo. Come di un corpo morto piombato nell’acqua. Mi alzai di scatto, istintivamente.
Tutti balzano in piedi. Ecco! La ragazzina e i tre vecchi. I vecchi mollano le reti e corrono verso il punto in cui il ragazzo è scomparso. Sono io quella ragazzina?
Anche i tre vecchi erano balzati in piedi. Come frecce scoccate da tre archi tesi erano prontamente scattati nella direzione in cui il ragazzo era appena scomparso. Soltanto nell’istante in cui mi superarono di slancio finalmente realizzai quanto era accaduto sotto i miei occhi.
Ecco! C’è qualcuno che si sbraccia in acqua, impigliato in un groviglio di reti. Gesticola, scalcia, annaspa ...
C’era qualcuno in acqua che annaspava, impigliato in un groviglio di reti.
Sì, era lui. Era il ragazzo di prima, che mentre portava le reti da rammendare era inciampato e finito in acqua. Su di una barca poco distante due pescatori si sbellicavano dalle risate. Anche i tre vecchi ridacchiavano sotto i baffi, ma nel frattempo si stavano già dando da fare.
Ecco che uno dei tre vecchi ha brandito un mezzo-marinaio e cerca di afferrare un lembo della rete che intrappola il ragazzo. Si protende, si allunga verso l’acqua. Gli altri due cercano di aiutarlo ...
Uno di loro aveva impugnato un mezzo-marinaio estratto al volo da una barca in secca sulla banchina, e col gancio di questo aveva afferrato un lembo della rete, cercando di tirare verso riva il poveretto impigliato, che si divincolava nella rete come un giovane, indomito capidoglio.
Forza! Tiratelo a riva! Coraggio! Ancora uno sforzo! Ecco! Così! Coraggio! Un ultimo sforzo ... Coraggio! Ecco, ci siete ...
Subito gli altri due anziani pescatori aiutarono il primo e tutti e tre, sia pure dopo un certo sforzo, riuscirono ad issare quel fagotto scalciante sul tavolaccio del molo «Pesca grossa quest’oggi!», gridò uno dei due pescatori che stavano sulla barca ancorata lì vicino. «Pesca grossa davvero per dei vecchi arpioni arrugginiti come voi!» E intanto rideva, rideva a più non posso.
Ridevano anche i tre vecchi, adesso. Ridevano così forte da avere le lacrime agli occhi. Anche il ragazzo, non appena liberato dalla morsa della rete, abbozzò un timido sorriso. Almeno da principio. Ma poi mi vide lì accanto, con gli occhi sgranati, ancora pieni del prodigio di quella scena rocambolesca, e divenne rosso, rosso come il fuoco. Si portò una mano alla bocca, e fuggì via in un lampo, a gambe levate, scomparendo in uno dei tanti carruggi che si affacciavano sul porto.
Carino però!
«Carino, però», pensai, mentre scompariva dietro l’angolo di una vecchia casupola tutta screpolata dalla salsedine. «Davvero carino»
In seguito seppi che era il figlio di un pescatore. E che ogni giorno andava per mare col padre. Così, pochi giorni dopo la morte di mio padre, ripresi ancora una volta la strada che mi conduceva qui, a questa Torre.
Sono io la ragazzina spettinata e scalza che ha appena assistito sul molo a questa scena rocambolesca? Davvero sono io?
Questo è il posto migliore per guardare e non essere visti. Ci sono tre finestre. Una dà sulla campagna. Un’altra si affaccia sul mare aperto. La terza guarda dalla parte del porto. Questo è il posto migliore per guardare e non essere visti. E’ troppo in alto, a strapiombo sul molo. Troppo in alto perché la gente giù da basso pensi di sollevare lo sguardo per vedere se ci sia qualcuno che si è affacciato a spiare gli uomini di ritorno dalla giornata di pesca in alto mare.
Sono io la ragazzina che ogni mattina si affaccia a spiare di nascosto gli uomini che ritornano in porto dopo una giornata trascorsa al largo, a pescare? Sono io quella che suda freddo ogni volta che fruga con lo sguardo tra i corpi seminudi dei rudi pescatori che scaricano dalle barche sporte piene di pesce? Sono io quella che scalpita e smania per la paura e la voglia di scorgere all’improvviso in mezzo a tutta quella accozzaglia umana due spallucce strette strette di un certo ragazzetto imberbe, figlio di un povero pescatore, che aiuta suo padre a scaricare ceste ricolme di scaglie d’argento vivo e guizzante? Possibile che davvero sia io quella ragazzina così confusa e trepidante?
Ogni mattina scendevo giù dalla collina, proprio come un tempo. Ma, non più prima dell’alba e rotolando a valle a corse e a balzi, come un torrente in piena; ma più tardi, a mezza mattinata, e col passo lento e sinuoso di un grande fiume di pianura. Salivo i gradini della Torre, raggiungevo la Sala Grande e mi affacciavo alla finestra dalla parte del porto, proprio nel preciso istante in cui le prime barche facevano ritorno. E lì, col fiato sospeso, aspettavo di vederlo sbucare in mezzo a quella selva di braccia e di torsi nudi che si davano un gran daffare per scaricare casse di pesce da vendere e ammassi di reti da stendere ad asciugare.
E’ strano. Davvero strano. Tutto questo mi sembra così vicino, eppure così lontano. Come se fosse appena accaduto. Appena trascorso. Eppure è come se nel breve lasso di tempo intercorso, nel batter di ciglio passato sugli occhi ... Ebbene è come se il tempo stesso, tutto il tempo dell’intero universo, fosse sprofondato in questo istante. Inghiottito. In un baratro oscuro di anni e anni e anni volati in un lampo. Inabissati. Caduti in fondo a un pozzo senza fondo. In fondo, in fondo. Ecco. E’ come se in quel pozzo stessi ancora precipitando. In questo pozzo. Oscuro pozzo. In fondo. In fondo. Precipitando. Ecco, sì. Precipitando. Anche adesso.
Poi, dopo che anche solo per un istante ero riuscita a scorgerlo, a intravederlo, o anche solo a immaginare di vederlo, mi ritiravo all’interno della Torre. Richiudevo la finestra. Mi chiudevo in me stessa. Come per meglio trattenere l’emozione di averlo visto, intravisto, o anche solo immaginato di vederlo. Perché le forti emozioni, si sa, sono come nuvole passeggere, che un soffio di vento può facilmente spazzare via, cancellare.
Ecco. Adesso la ragazzina richiude accuratamente la finestra e va a sedersi in un cantuccio. Tira fuori di tasca per l’ennesima volta il suo specchietto rotondo e riprende a dondolarsi e a canticchiare.
Per questo richiudevo subito la finestra. Perché non facesse corrente. Perché un alito di vento non mi rubasse quel lieve inebriante formicolìo che mi solleticava il basso ventre.
Tutto questo mi sembra così assurdo. Incomprensibile. Un’allucinazione. O qualcosa del genere. Davvero sono io ora che parlo? Io. Qui. Ora. Sento la mia voce riecheggiare nella stanza. La mia voce racconta delle cose. Ma davvero sono io quella che parla? Davvero sono io questa che vedo qui, adesso, riflessa nello specchio della mia coscienza? Davvero è questa la realtà? E non piuttosto quella della ragazzina confusa e emozionata che ogni mattina si affaccia alla finestra sul molo per spiare di nascosto il quotidiano rientro dei pescatori dalla dura giornata di lavoro? Ecco. Adesso la ragazzina si è ritirata dalla finestra. Ha visto abbastanza. Come posso essere sicura che non sia tutto un sogno? Un sogno queste mie parole. Un sogno la visione della ragazzina affacciata alla Torre. Un sogno dentro un sogno. Un disarmante gioco di scatole cinesi. Ubriacante. Un ubriacante gioco di scatole cinesi. Effimero. Un gioco ubriacante ed effimero. Effimere le mie parole. Effimere le immagini che trascorrono sulla superficie levigata di questo specchio e non lasciano il segno. Nuvole leggere nella vasta cavità del cielo. Favole passeggere. (Pausa) Forse io non sono di questo tempo. Forse non appartengo a questo tempo. Io, qui, ora. Forse sono solo un ricordo. La diafana ombra di un ricordo. Rimembranza di una vecchia signora aggrappata al suo passato. Dev’essere molto vecchia la signora. La sua memoria vacilla. Per questo anch’io, qui, ora, vacillo. Io che sono la sua memoria. Vacillo. Come la fiamma di una candela, insidiata dal vento. Come il labile ricordo di un sogno insidiato dal tempo. (Pausa) Oppure no. Forse sono il sogno di una ragazzina. Non la nostalgia di un passato mai accaduto, ma la speranza di un futuro che non avverrà. Il sogno di quella ragazzina affacciata alla finestra. Il sogno di quella ragazzina che ho appena rivisto in sogno. Un sogno dentro un sogno. (Pausa) Non so. Tutto è così confuso. Il presente, il passato, il futuro. Tutto è così uguale. Sempre. Eppure così mutevole. Nuvole passeggere nella vasta fissità del cielo ... Tutto cambia, senza mai cambiare niente. Tutto si confonde. Il passato, il futuro, il presente ...
Ci sono cose che è meglio non pensare. Cosa da perderci la testa. Meglio, molto meglio non pensare. Meglio scordare.
Tutto cambia, senza mai cambiare niente. Tutto si confonde. Tutto. Il passato, il futuro, il presente ...
Ci sono stati tempi migliori, in passato. Tempi in cui ancora credevo al principe azzurro. O a sciocchezze del genere. Bei tempi quelli. E mi sentivo come la fanciulla di Rapunzel. Chiusa nella sua torre, prigioniera, in attesa di un uomo che la salvasse dalla malinconia e dalla solitudine. E me lo immaginavo il mio principe azzurro. E mi preparavo nel migliore dei modi all’incontro con lui. Pettinavo i miei lunghi capelli. Mi specchiavo. Mi truccavo. Cospargevo il mio corpo di profumi e di essenze. Esercitavo il mio corpo in sinuose movenze. Piccole, audaci, provocanti movenze. Brevi sequenze di danze inaudite incastonate nelle partiture dei gesti più comuni e quotidiani. Trappole ben occultate nel folto della vegetazione, pronte a scattare non appena la preda vi fosse incappata. E cantavo. Cantavo canzoni mai udite.
Stanotte ho sentito una vecchia raccontare una storia. C’era una fanciulla prigioniera dei suoi sogni, nella lontana contrada di Rapunzel. La fanciulla cantava canzoni mai sentite, pettinava i suoi lunghi capelli. E aspettava. Aspettava un uomo. Aspettava qualcuno capace di strapparla dall’incantesimo che la teneva incatenata in quel luogo. E intanto cantava. Cantava canzoni mai sentite e pettinava i suoi lunghi capelli.
Ecco. Adesso la donna, l’ombra, estrae da una tasca uno specchietto rotondo del tutto identico a quello della ragazzina, si guarda nello specchio a lungo, assorta. Si sfiora il viso con una mano.
Tessevo trame di note leggere e intricate, un tessuto fitto fitto, finissimo e inestricabile, una rete invisibile che si posava su ogni cosa, che legava, imbrigliava, invischiava ogni cosa che anche solo sfiorava. E pettinavo i miei lunghi capelli. Preparavo con cura i miei strumenti di seduzione. Perché essere bella è un’arte. Un’arte difficile e delicata. Occorre dedizione, pazienza, esercizio. E tempo. Un tempo infinito. Dev’essere passato molto tempo da allora. I miei lunghi capelli non sono più quelli.
Il tempo sprofonda, si eclissa. Il passato, il futuro ... Quella che ero. Quella che sarò. Tutto si confonde. Ecco. Adesso la ragazzina si guarda allo specchio. Si passa una mano tra i capelli. Si lascia cullare dai sogni. Sono io quella ragazzina?
Sono io quella fanciulla? Sono io la ragazza di Rapunzel?
Per l’ennesima volta un colpo di vento spalanca la finestra. Una musica struggente inonda la stanza. Musica di violoncello. La vecchia, la donna e la ragazzina si passano simultaneamente una mano tra i capelli. Un gesto lento, misurato, reiterato. Il capo leggermente inclinato dallo stesso lato. Una danza fatta di nulla, di una mano tra i capelli, di occhi socchiusi, di un lento sinuoso girotondo, di braccia che si sollevano e si aprono ad abbracciare il mondo. E il tempo che per un istante sospende il suo corso.
Credo di essere stata bella un tempo.
Credo che sarò bella un giorno! Ne sono sicura.
Credo di essere bella. Adesso. Mentre danzo sul filo di una labile memoria. Mentre danzo in girotondo l’inizio e la fine di questo storia, come se fosse la stessa cosa. Un serpente che si morde la coda. Ogni cosa che dico o che faccio è solo un sogno. Un labile segno. Una rosa disfatta dal vento. Il frammento di una danza dissolto nel vortice del tempo. E’ questa la cifra dell’incanto.
Sarà l’attesa a farmi bella. Tutto il tempo che ho davanti. Il tempo di una attesa che non finisce mai.
L’attesa fu il crogiuolo in cui si forgiò la mia bellezza. La mia bellezza. Un vaso di cristallo. Fragile, prezioso, trasparente. Ricolmo di ogni istante della mia vita passata, futura, presente. Fatto di luce e di niente. Un dono effimero. Fatto di luce e di musica portata dal vento. Un vaso di cristallo. Pronto ad infrangersi al primo incidente. Una folata di vento improvvisa irrompe nella stanza. Il vaso vacilla, cade, si rompe. Tutto finisce. Resta soltanto, per terra, un tappeto di sogni infranti. E piedi sanguinanti.
Mi farò bella, intanto che lo aspetto. Mille colpi di spazzola al giorno per rendere più morbidi e lucenti i miei capelli. Mille canzoni cantate sottovoce per rendere più dolce e sensuale la mia voce. Mille passi di danza provati e riprovati per rendere più eleganti i movimenti del mio corpo. Mille colpi di spazzola. Mille canzoni. Mille passi di danza. Così mi farò bella, mentre lo aspetto. Mille colpi di spazzola. Mille canzoni. Mille passi di danza. E il gioco è fatto.
I miei piedi sanguinano. Dev’essere successo qualche cosa. Non ricordo cosa. Cammino sopra un tappeto di ventri infranti. Eseguo inauditi passi di danza. Sì. Dev’essere successo per forza qualche cosa.
Mille colpi di spazzola. Mille canzoni. Mille passi di danza. E il gioco è fatto. Così mi farò bella intanto che lo aspetto.
Qualcosa di terribile. Un colpo di vento violento e improvviso che ha fatto irruzione nella mia vita, mettendola a soqquadro, spazzando via ogni cosa. Un colpo inaudito. (Pausa) Un colpo di pistola, credo.
Ecco. Adesso la finestra di nuovo si è aperta. Spalancata da un colpo di vento. Mi avvio a richiudere la finestra, lentamente.
Mille colpi di spazzola. Mille canzoni. Mille passi di danza. E il gioco è fatto. Così mi farò bella mentre lo aspetto. Mille colpi di spazzola. Mille canzoni. Mille passi di danza sopra i miei sogni infranti. E il gioco è fatto. L’amore mio sarà in trappola.
Un colpo di pistola. Sì. Dev’essere stato questo a strapparmi dal mondo dei sogni. Un colpo di pistola. No. Non ricordo dove e quando. Non ne sono sicura. Un colpo di pistola. Sì. Un colpo di pistola. Dev’essere andata così.
Ecco. Adesso. La donna fissa a lungo l’uomo coperto dal lenzuolo al centro della stanza, come incantata.
Passò del tempo prima che mi decidessi ad incontrarlo, a guardarlo in faccia, ad incrociare il suo sguardo. Se qualche volta per le vie del paese mi capitava di scorgerlo anche solo in lontananza, subito, rapidamente, scantonavo, tornavo indietro, cambiavo strada, marciapiede, o mi fissavo la punta delle scarpe ... Qualunque cosa, insomma, pur di non incrociare il suo sguardo. Pur di non intuire la sua reazione nell’incontrarmi. Attrazione, repulsione, indifferenza ... Non m’importava quello che provava nell’incontrarmi così, per strada. Non lo volevo sapere. Preferivo non sapere. Comunque, qualunque fosse stata la sua reazione, mi sarei sentita a disagio. Non ero pronta. Non ancora.
Mille colpi di spazzola. Mille canzoni. Mille passi di danza. E il tempo passa ...
Ci volle del tempo. Da principio, per settimane e settimane, mi limitai a spiarlo, dalla mia finestra sul molo. Poi mi feci più ardita e cominciai a seguirlo, a pedinarlo, da una certa distanza, mentre risaliva le viuzze che dal porto vanno alla piazza del mercato, con la sua cesta di pesce fresco sulle spalle. Qualche volta, approfittando della folla che si assiepava a ridosso dei banchetti, mi facevo più ardita, fino ad avvicinarmi a lui, fino quasi a sfiorarlo. Una di queste volte, senza volerlo, inciampai nel suo sguardo. Lui mi sorrise. Io d’istinto mi voltai, per vedere a chi stesse sorridendo ... Ma nulla. Nessuno. Non c’era nessuno alle mie spalle. A me! Stava sorridendo a me! Scappai via di corsa senza neppure voltarmi indietro a guardarlo, per timore d’essermi sbagliata.
Mille colpi di spazzola. Mille canzoni. Mille passi di danza. E tutto cambia ...
Ma da quel giorno le cose cambiarono. Adesso ogni volta che vedevo la sua barca attraccare al molo non me ne restavo nascosta a spiarlo mentre si districava tra la selva di marinai e pescatori, ma correvo giù dalla Torre tre gradini alla volta. Risalivo svelta svelta verso la parte più alta del paese, poi giunta all’altezza di una certa fontanella, mi fermavo, bevevo un poco d’acqua, rifiatavo, mi rinfrescavo la faccia accaldata per la gran corsa, mi ravviavo i capelli, e, come se nulla fosse, svoltavo per una certa stradina che ridiscendeva al porto. Lui era lì, in fondo a quella stradina, con la sua sporta quotidiana di pesce fresco caricata sulle spalle, che saliva in direzione del mercato, con passo agile e svelto. Io scendevo, con passo lento e misurato, facendo finta di non vederlo fino all’ultimo momento. Poi, all’ultimo momento, sollevavo lo sguardo. Lui mi guardava, mi sorrideva. Io contraccambiavo il suo sorriso, e continuavo per la mia strada.
Mille colpi di spazzola per i miei lunghi capelli al vento. Mille canzoni per la mia voce sottile. Mille passi di danza per l’eleganza e lo stile del mio portamento. Mille passi di danza. Mille canzoni. Mille colpi di spazzola. E lui sarà in trappola.
Andò avanti così per mesi. Ogni giorno della settimana, escluso la domenica. L’avvistamento dalla Torre, la corsa a perdifiato, la fontanella, lui che compare infondo alla stradina, l’incrocio degli sguardi, i sorrisi. E poi nulla. Nemmeno una parola. Nulla. Ognuno via, di furia, per la sua strada.
Mille colpi di spazzola. Mille canzoni. Mille passi di danza. Per mille giorni. E’ questa la sequenza. Mille colpi di spazzola. Mille canzoni. Mille passi di danza. E il gioco è fatto. Il tempo passa. E tutto cambia. Il fiore diventa un frutto maturo. Il ruscello rinsecchito un grande fiume di pianura. E la ragazzina striminzita che c’era prima passa attraverso lo specchio e diventa, dall’altra parte, una donna vera. Infondo basta poco. Davvero poco. Mille colpi di spazzola. Mille canzoni. Mille passi di danza. E il gioco è fatto. E’ solo un gioco. In fondo. Soltanto un gioco.
La prima volta che parlai con lui fu una domenica d’aprile.
La prima volta che ho sentito la sua voce è stata una domenica d’aprile. Le ombre di certe nuvole basse sparse per il cielo trascorrono lente sul dorso delle colline. Il cielo è terso, di un azzurro sfolgorante. C’è un silenzio irreale e un vago senso come di sospensione. Io me ne sto sdraiata, in mezzo a un prato, poco distante dalla nostra casa di campagna. Indosso un vestito chiaro, di cotone leggero, lungo fino alle caviglie. Le mani dietro la testa, gli occhi socchiusi per la gran luce, guardo l’ombra di certe nuvole basse trascorrere lenta sul dorso ondulato delle colline. Galleggio come sospesa tra il sonno e la veglia. Lascio correre la fantasia. Sogno ad occhi aperti. Una brezza leggera che sale dal mare mi sfiora appena. La sento scivolare lungo il mio corpo. La sento assecondare le curve appena accennate e le lievi insenature del mio corpo. Socchiudo gli occhi per meglio godere del piacere di quella dolce sensazione. (Con gli occhi chiusi sfiora il corpo dell’uomo sotto il lenzuolo) M’immagino per un istante che sia la sua mano quella che mi accarezza il seno, e non la mano del vento. Mi lascio cullare a lungo da questa fantasia inebriante. (Sempre con gli occhi chiusi afferra una mano del cadavere sotto il lenzuolo e se la porta al seno, poi al basso ventre) Fino a sentirmi attraversare da una voglia leggera, sempre più insinuante. Fino a sentirmi fremere dal desiderio. Fino a sentirmi smaniare, ansimare. Fino a sentire il suo fiato, l’umore delle sue labbra mischiarsi con l’umore delle mie labbra. Piccole, grandi labbra dischiuse, nell’ebbrezza dell’amore. Confusioni di umori e di brucianti desideri. Onde di una marea che sale, che urge, s’infrange nelle insenature. Poi qualcosa che s’insinua, che affonda nella mia più profonda intimità. Qualcosa che urge. Che affonda nel candore spumeggiante del mio desiderio. E una voce. Una voce confusa nelle voci del vento. Una voce che mi dice: «Amore mio». Una voce appena percepita. Una flebile voce che mi sussurra piano, che mi ripete: «Amore mio ... Amore mio ...». E la paura e la voglia di aprire gli occhi. Di guardarlo negli occhi. E la forza di resistere alla tentazione, per non infrangere l’incantesimo di quella inattesa occasione. Di quella trasgressione. E solo dopo, placata come d’incanto la violenta, ubriacante mareggiata, soltanto dopo, aprire gli occhi, e trovarselo accanto. Pausa. Sdraiato nell’erba accanto a me. In mezzo al prato. Lui. Pausa. Il figlio del pescatore. Il mio ragazzo. L’amore mio. Pausa. Quand’è che è arrivato? Quando si è sdraiato al mio fianco? Pausa. Quanto tempo è passato? Pausa. Erano sue le mani sul mio corpo? Non erano le mani del vento? Pausa. Non so. Tutto si confonde. Pausa. Forse è stato tutto un sogno. Solo un sogno. L’ombra di un sogno passata lenta sul mio corpo, come l’ombra di certe nuvole che passava lenta sul dorso delle colline ...
La prima volta che parlai con lui fu una domenica d’aprile. L’ombra delle nuvole scorreva lenta lungo il crinale delle colline. Il cielo era sfolgorante. Io me ne stavo sdraiata in mezzo a un prato, poco distante dalla nostra casa di campagna, con gli occhi chiusi. Ad un certo punto aprii gli occhi e me lo vidi lì, sdraiato accanto a me, su di un fianco. Proprio accanto a me. Aveva uno sguardo assorto, posato su di me. Mi sussurrò all’orecchio: «Amore mio». Poi mi baciò sulla bocca. Proprio così: «Amore mio» mi disse all’orecchio. Poi mi baciò sulla bocca. A me pareva di sognare. Davvero. Mi parve un sogno.
Un sogno, sì. Null’altro che un sogno. Un labile sogno. Un vago miraggio nella luce d’aprile. Un’allucinazione dei miei poveri sensi travolti dal profumo inebriante e dall’incanto della primavera.
Fu quella la prima volta che udii il suono della sua voce. Era la voce di un uomo, non quella di un ragazzo. Una voce calda. Un timbro scuro, profondo, sensuale. Ne fui turbata. Profondamente turbata.
La sua voce aveva un corpo. La sua voce.
Era una voce che aveva un corpo. Una voce che subito faceva pensare ad un corpo. Qualcosa di solido, di concreto. Eppure, al tempo stesso, era liquida, musicale, inafferrabile. Difficile da spiegare. C’era in quella voce una doppia anima. Un’anima ferma come la roccia di uno scoglio. E una mutevole come le onde del mare.
La sua voce aveva due anime. Una fatta di pietra, di roccia, di terra. L’altra di acqua e di vento. Sì, così. La sua voce aveva due anime. Pausa. Ma perché ne parlo al passato? La sua voce è ancora qui. Riecheggia ancora nelle stanze del mio cuore. In questa stanza circolare. E’ come la voce del mare. Basta poco per poterla ascoltare. Il guscio vuoto di una conchiglia a cui appoggiare l’orecchio. Uno specchio a doppio fondo da attraversare. Pausa. Forse questa stanza è l’enorme guscio vuoto di una conchiglia. Una conchiglia in fondo al mare.
Ecco. Forse proprio questo si annidava nella sua voce. Il respiro del mare.
In ogni modo era una voce inconfondibile. Il timbro della sua voce. Potevo distinguere il suono della sua voce persino leggendo una sua lettera. La musica della sua voce. Quasi subito, fin dalle primissime righe, riuscivo ad immaginarmela, ne seguivo l’andamento, il ritmo, il respiro regolare. Riuscivo ad indovinare le pause, le esitazioni. Le alterazioni, le modulazioni del tono. Le parole su cui si posava e quella che rapide sorvolava. Non sempre capivo le cose di cui mi scriveva. Ma quasi sempre potevo riconoscere la melodia.
Non sempre capisco le cose che mi dice. Ma quasi sempre riconosco la melodia. Come con le canzoni americane. Non occorre conoscere l’inglese per sapere se sono allegre o malinconiche. Se parlano d’amore o di cose spiritose.
Le sue lettere. Le sue lettere dal fronte. Quanto tempo è passato da allora? Non dovrei rivangare certi ricordi. Ci sono cose che andrebbero lasciate sepolte. Per sempre. Sotto metri di buona terra. Morte e sepolte. E una pietra sopra. Così. La memoria di certi giorni dovrebbe sprofondare nelle notti senza luna della dimenticanza. E non balenare a sprazzi, come adesso. Sciabolate di una luce cattiva che feriscono gli occhi. Questo - nient’altro - sono i ricordi.
Ricordo di aver letto delle lettere. Sue lettere. Strano. Ricordo perfettamente la sua pessima calligrafia: incerta e grande, da bambino. La sua sintassi disarticolata. Però non ricordo che sia mai partito. Davvero strano. Eppure dev’essere accaduto.
I giorni che precedettero la sua partenza. Giorni davvero strani. Giorni come sospesi, impigliati tra i rami. Giorni senza domani. Giorni inermi e indifesi, sdraiati nei cortili, come cani randagi. Le notizie sui giornali, frammentarie e contraddittorie. Come all’inizio di tutte le guerre. Sempre la stessa storia. Una girandola di fatti che si rincorrono. Sempre la stessa storia. La mia storia. Un tragico girotondo di fatti che si ripetono.
Giro giro tondo
Un uomo sta partendo
Partendo per il mondo
Partendo per la guerra
Tutti giù per terra!
Poi, un giorno, la cartolina di precetto. E la grande impressione che fece il fatto che fossero chiamati al fronte anche loro, anche i ragazzi del ’14. Un’ondata di rabbia e di sconfitta. Un’impressione di inutile sacrificio. Di fiumi di sangue che affondavano nella sabbia.
Ecco. Sale sul bastimento a cuor leggero. Con lo zaino sulle spalle e la sua baldanza a tracolla. Segue fischiettando il suo reggimento. Non ha paura della morte. No. Già altre volte l’ha incontrata, sfidata, beffata, al largo, tra le onde, investito all’improvviso dalla furia di una tempesta, sulla barca di suo padre. Oppure alla deriva, per giorni e giorni, fuori da ogni rotta, nella rete di una bonaccia che non lo mollava. No. Lui non ha paura della morte. Io invece non posso non pensare all’altra Guerra. A mio padre tornato dentro una cassa. No, non posso dimenticare. Non posso trattenere, non posso domare l’angoscia. Ecco. Ricomincia l’attesa. Spasmodica attesa. Ecco. Sono ancora qui. Dentro questa torre. Sono ancora qui che aspetto. Non è successo nulla.
Di nuovo un colpo di vento che spalanca la finestra e il sordo lamento di un violoncello che invade la stanza. La ragazzina ha ripreso a dondolarsi.
Giro giro tondo
Un uomo, un giorno
E’ partito per il mondo
Partito per la guerra
Ma poi farà ritorno
Ritorno alla sua terra
Tutti giù per terra.
Lui salì sul bastimento che lo doveva portare al fronte con lo zaino sulle spalle e la sua giovanile baldanza a tracolla. Partì fischiettando, insieme al resto del suo reggimento. Per me, in quel preciso istante, ricominciava l’attesa. Spasmodica attesa. Giorni che passavano lenti e monocordi. Uno strumento lontano suonava sempre, in sottofondo, lo stesso monotono accordo. Un accordo in la minore, sordo e ripetuto, incessante, che scandiva il passo strascicato di quella mie interminabili giornate vuote, svuotate, trascorse in balìa dei ricordi e di esili speranze. Dio mio, quanto ho pregato perché facesse ritorno!
Giro giro tondo
Un uomo un giorno
E’ partito per la guerra
Ma poi farà ritorno
Tornare è la sua sorte
Sconfiggere la morte
Tornare alla sua terra
Tutti giù per terra!
Ogni giorno, mentre scendevo giù per la collina, lungo sentieri di terra battuta, poi per stradine acciotolate, e infine su per quei gradini di pietra, soffocando in gola tutte le maledizioni che mi ribollivano nel cuore, cercando di non pensare alla cattiva sorte che si accaniva contro di me, contro di me e contro le altre, tutte le altre che come me avevano già perso il padre nella Grande Guerra, e che adesso si vedevano mariti, fratelli, fidanzati sottratti ancora una volta, mandati al fronte, in balìa di un destino all’arma bianca ... Ogni giorno, salendo alla Torre, soffocando in petto la rabbia, Dio mio, quanto ho pregato affinché tornasse vivo da quella terra lontana! Affinché né una pallottola, né una lama scalfisse quel suo giovane corpo, le sue braccia, le spalle, il torace, le gambe forti e muscolose ...
Mio Dio, ti prego, proteggi dal male la sua testa, il collo, le spalle, la schiena ... il torace, i fianchi, le gambe, le ginocchia, i piedi ... le mani, le braccia ... Mio Dio, proteggilo dal male, dal ferro e dal fuoco, dalle lame e dalle armi da sparo. Ti prego. Ti prego! Fa che mi ritorni tutto intero. Ti prego. Ti prego! Proteggi le sue mani, la testa, il collo, le spalle, il tronco, le gambe, le braccia ... Ti prego. Ti prego! Fa che ritorni in vita. Fa che ritorni senza nessuna ferita.
Giro giro tondo
Lui farà ritorno
Tornare è la sua sorte
Sconfiggerà la morte
La morte e la guerra
Tutti giù per terra!
Poi, un giorno, lui fece ritorno.
Adesso la donna corre alla finestra aperta, si affaccia, scruta l’orizzonte. La musica lenta e struggente del violoncello inonda la stanza.
Giro giro tondo
Tornare è la sua sorte
Sconfiggere la morte
La morte e la guerra
Tutti giù per terra!
Quando lo vidi, dritto sul cassero, appoggiato con i gomiti alla balaustra, mi fece un’enorme impressione. Il molo era pieno di gente festante. Io, naturalmente, me ne stavo appostata alla solita finestra sulla Torre. Mentre la nave manovrava per entrare in rada lui non guardava verso la banchina. Il suo sguardo era perso chissà dove. Forse ancora impigliato negli orrori che aveva veduto là in Africa. Forse altrove. Soltanto quando la nave ebbe gettato l’ancora lui parve distogliersi dal suo torpore. Allora sollevò lo sguardo verso la Torre, nella mia direzione. Lui sapeva che io ero là, alla Torre. Lui sapeva che io sarei stata qua, in attesa. Mi parve di vederlo sorridere. Ma, considerata la distanza, non posso esserne certa. Poi i reduci cominciarono a venire ammassati sulle scialuppe che nel frattempo si erano affiancate alla grande nave. Così lo persi di vista.
Eccolo! Eccolo! Dritto sul cassero, coi gomiti appoggiati alla balaustra. Tutti gli altri intorno a lui si sbracciano a salutare amici e parenti ammassati sul molo. Lui no. Lui non ha nessuno sulla banchina. Suo padre è morto, mentre lui era lontano. Gli ho scritto io la cattiva notizia. Non aveva nessun altro. Ora ha me. Solo me. Ma lui lo sa che io non sono sul molo insieme agli altri. Per questo non vi getta neppure uno sguardo. Ma che cos’ha? Perché non guarda neanche su, verso di me? Strano. Sembra assorto. Ma come dargli torto? Lui è un essere diverso dagli altri. Sensibile. Molto sensibile. Anche nel giorno del ritorno non può dimenticare tutto l’orrore che ha veduto. Mi ha accennato qualcosa, nelle lettere. Lettere stentate, faticose. Come se per raccontare certe cose non trovasse le parole. Lettere dal fiato corto, affannose. Lettere dolorose. Dev’essere stato spaventoso, laggiù in Africa. Davvero spaventoso. Cose che noi non possiamo neppure immaginare. Così mi ha scritto: «Cose che voi non vi potete neppure immaginare» Come dargli torto? Ecco. Adesso solleva lo sguardo. Mi guarda. Sorride. Rispondo al suo sorriso. Proprio come un tempo. Proprio come lungo la stradina che conduceva al mercato. Lo stesso incrocio di sguardi. Di sorrisi. Chissà se anche lui ha pensato la stessa cosa. No. Forse no. E’ passato del tempo. Tutto è cambiato. Forse anche lui non è più la stessa persona. Forse quello che ha visto gli ha cambiato il cuore, il carattere. Certe volte, nelle sue lettere, stentavo a riconoscere, tra le righe, il suono della sua voce. Specie nelle ultime, sempre più rare. Sempre più confuse, intricate. Brevi, ma piene di cose che non capivo. Di frasi lasciate in sospeso. Forse è perché non è abituato a scrivere, ho pensato ... Per questo s’imbroglia, si confonde. Ma ora, ora che lo vedo lì così assorto, ora non ne sono più tanto sicura ...
Lo rividi poco dopo. Me ne stavo ancora lì, affacciata alla finestra, ad almanaccare su come quell’orribile tempesta avesse potuto mutare il suo essere, il suo carattere, quando ecco, all’improvviso, giro la testa e con la coda dell’occhio lo vedo lì alle mie spalle ...
Lui era lì. Alle mie spalle. La sua figura si stagliava in controluce nel vano rettangolare della porta. Pausa. Rimasi come paralizzata. Un turbine di sentimenti mutevoli e contraddittori mi investì. Attraversò ogni fibra del mio corpo. Immobile, irretita, non potevo far altro che guardarlo. Anche lui non si muoveva. Fermo, in controluce nel vano della porta. Come un reduce. Come un uomo amato che la lontananza ha reso estraneo «Tu hai uno sguardo che impietra», mi disse, con una voce che non gli conoscevo. Per un istante vacillai. Dubitai che davvero fosse lui. Stavo per rispondergli: «Che vuoi da me, straniero?», quando lui, sottovoce, aggiunse: «Davvero, amore mio». Soltanto allora lo riconobbi.
Che vuoi da me, straniero? Forse sei stanco di girare per il mondo. Forse cerchi un porto per un approdo più duraturo. Non ne puoi più di essere fatto di acqua e di vento. Vorresti essere terra, roccia, scoglio. Vorresti mettere radici. Io conosco molte incantagioni. Formule segrete per tutte le stagioni. Posso trasformarti in un albero o in una roccia. Se lo vuoi. Se lo voglio. Guardami negli occhi, straniero. Te lo ripeto: io conosco infinite incantagioni. Me le ha insegnate in una notte di luna piena una vecchia megera. Come? Vorresti sapere chi era la vecchia megera? Ma ero io, mio caro. Io. Quella che sarò un giorno.
Questa notte dentro la sfera della luna piena ho intravisto la faccia di una vecchia megera «Tutte le notti tornerò a visitarti in sogno», mi ha detto la vecchia dalla sfera di cristallo, «per insegnarti il mio mestiere. Non devi temere. Non devi temere» Così mi ha detto la più vecchia e la più brutta delle megere. «T’insegnerò ogni sorta di trucco, che potrai usare, di volta in volta a tuo piacimento. Solo di una cosa ti avverto. Attenta allo specchio. Attenta alla magia dello specchio! Nulla devi temere più di te stessa, fanciulla, riflessa in uno specchio» Così mi ha detto stanotte una vecchia megera comparendo nella sfera di cristallo della luna piena. Poi è scomparsa. Non sono sicura di aver capito quello che voleva dire. Ma in fondo, che importa?
Forse è questo quello che è accaduto.
Ecco. Adesso l’ombra della vecchia si muove, in direzione della donna, la fissa a lungo. La donna accarezza, continua ad accarezzare il volto di un uomo immaginario. La vecchia getta uno sguardo anche alla ragazzina. Anche la ragazzina sta accarezzando un volto immaginario: il suo volto riflesso dallo specchio. La vecchia, seguendo un impulso repentino solleva una mano in direzione del volto della donna, l’accarezza.
Forse un giorno mi sono guardata in uno specchio e sono caduta vittima delle mie stesse incantagioni. Forse davvero il mio è uno sguardo che impietra. E quell’immagine riflessa mi ha come ammaliato, catturato, imbrigliato. Intrappolato. In una rete di sogno. Nella spirale di un labirinto di pietra da cui non si evade. Nel vortice lento e ubriacante di un tempo che si avvolge su se stesso. Che avanza senza procedere d’un passo. Forse sono ancora lì. Ancora qui. Anche adesso. In balìa di un tempo che avanza ma non passa. Nella malìa di un immobile, vertiginoso passo di danza. Un folle girotondo senza inizio né fine.
Giro giro tondo
La regola del mondo
E’ di girare intorno
Il giorno e la notte
La notte e il giorno
Andata e ritorno
Giro giro tondo
Tutto si confonde
Il giorno e la notte
La notte e il giorno
Il cielo e la terra
La pace e la guerra
Tutti giù per terra!
No. Lui non era più lo stesso. C’era qualcosa nel suo sguardo. Qualcosa di diverso. Qualcosa che non avevo mai veduto. Nuvole nere si addensavano nel panorama del suo sguardo. No. Non erano nuvole passeggere. Talvolta sembravano svanire. Si acquattavano dietro la linea ondulata delle colline. Oppure dietro l’orizzonte, dall’altra parte del mare. E restavano lì in agguato. Ma non c’era né sole né vento. Non c’era nulla che le potesse dissolvere. Avevano a che fare con la guerra. Io lo sapevo. Con quello che in terra d’Africa aveva veduto. Talvolta provai ad affrontare l’argomento, ma ... Nulla. Il suo viso si adombrava. Il suo sguardo si faceva ancora più scuro. No. Non c’era verso. Non voleva parlarne. M’illusi che il tempo potesse risanare le ferite, cancellare i cattivi ricordi. E cercai di aiutarlo a guardare avanti. Nel frattempo fervevano i preparativi per il nostro fidanzamento.
Ecco. Nel frattempo la donna è andata a inginocchiarsi presso la finestra, nel rettangolo di luce azzurra proiettato dalla luna sul pavimento. La ragazzina le gironzola attorno con il suo specchietto rotondo. La donna si pettina i lunghi capelli, si trucca il viso, si fa bella. La piccola l’aiuta reggendole lo specchio. La musica del violoncello pervade la stanza, suadente e nostalgica.
Il momento è arrivato
Non si può tornare indietro
Guardati nel vetro dello specchio
Ripeti insieme a me:
«Non invecchio, non invecchio
Fisso per sempre il mio volto
Nel circolo del tempo»
Coraggio, ripeti.
Fermiamo una volta per tutte
Il passaggio del tempo
Non vogliamo diventar brutte, no?
E allora ripeti, coraggio:
«Non invecchio, non invecchio.
Fisso per sempre il mio volto
Nel circolo del tempo».
Non invecchio, non invecchio.
Fisso per sempre il mio volto ...
Nel circolo del tempo ...
Ancora una volta, coraggio:
«Non invecchio, non invecchio.
Fisso per sempre il mio volto ...
Nel vincolo del tempo»
Fisso per sempre il mio volto ...
Nel vincolo del tempo ...
Un’altra volta ancora:
«Non invecchio, non invecchio.
Fisso per sempre il mio volto ...
Nel cerchio di uno specchio»
Nel cerchio ... di uno specchio ...
Adesso è sufficiente?
Non ancora, non ancora. Manca ancora l’ultimo tocco. E la magia è fatta.
Di che cosa si tratta?
Ah! Ma allora non sai niente!
So tutto quello che sai tu! E anche di più! So tutto quello che sai, e anche quello che saprai un giorno, ma che ancora non sai. Vedrai, vedrai!
Ma dai! E allora vai avanti, vai! Dimmi quello che manca, che sono stanca. Questo gioco arranca.
Manca l’ultimo tocco. E il gioco è fatto ... Manca ... l’ultimo colpo di spazzola - per i miei capelli morbidi e lucenti ...
L’ultima canzone cantata sottovoce - per la mia voce dolce e sensuale ...
L’ultimo passo di danza - per le movenze del mio corpo flessibili ed eleganti ...
L’ultimo passo di danza perché si compia la tua eleganza ... Proprio cosi! Ultimo passo di danza, ultima canzone, ultimo colpo di spazzola ... e, voilà! Il gioco è fatto!
Ecco. La donna e la ragazzina ridono di gusto. La musica del violoncello sommerge il gorgogliare delle loro risate.
Così finalmente venne il giorno del mio fidanzamento. La Sala Rotonda era addobbata come per le grandi occasioni. Tavole imbandite, argenteria scintillante, festoni colorati che pendevano dal soffitto, gli strumenti musicali dell’immancabile orchestrina jazz addossati a una parete sgombra, e una moltitudine di gente con il vestito buono e la biancheria pulita che profumava di lavanda. Il pranzo si protrasse fino al tardo pomeriggio, con innumerevoli portate, cori sboccati e un chiacchiericcio fitto fitto che riempiva l’intera Sala, fino al soffitto. Verso sera l’orchestrina attaccò con il suo consueto repertorio: vecchi fox-trot, qualche pezzo swing, e un paio di beguine. Nessun calipso, purtroppo. I tavoli furono addossati alle pareti. E tutti si misero a ballare. Quando scese la notte erano rimaste solo poche coppie in pista. Alcune mie amiche con i loro spasimanti. Un paio dei fratelli di lui, quelli più giovani. E noi due, naturalmente.
Non balli male, per essere il figlio di un pescatore ...
Nemmeno tu, piccola, per essere la figlia di un fattore!
Guarda che io ballo benissimo! E non ti permettere, sai ... Sono anni che aspetto di potermi esibire.
Alla fine sorse la luna, alta nel cielo. Proprio come adesso. Una luna gigante. Il suo riflesso si disperdeva in una miriade di scaglie d’argento sparse sulla superficie del mare. Quanto tempo è passato da allora? Io continuavo a ballare, ballare, ballare. Non era rimasto più nessuno. Solo il complessino jazz, esausto, che però non la smetteva di suonare. E lui, che si era seduto in disparte, e mi stava a guardare. E la luce della luna, come una sfera di cristallo sbriciolata e sparsa sulla superficie del mare ...
E’ tutta la vita che aspetto questo momento! Tutta la vita! La mia vita sta per cambiare. Lo so. Lo sento. Nulla più sarà uguale. Questa danza segnala il passaggio. Non sono più una bambina. No. E neppure una fanciulla, una ragazza. Sono una donna, ormai. Una donna che danza! (rivolgendosi all’immaginario fidanzato) Si vede, no? (Scherzando) Si nota dall’eleganza ...
Mentre mi abbandonavo nella spirale della danza mi sentivo trasportare lontano. Via, lontano da tutto ciò che era stato. Sulle soglie del futuro. Del mio destino in agguato. Ebbi una sensazione chiara, forte, distinta. Il tempo per un interminabile istante parve eclissarsi. La fiamma che da sempre mi divorava parve placarsi, smorzarsi. Ebbi la netta sensazione di essere sulle soglie della felicità. La felicità era lì, a portata di mano. Quasi la sfioravo. Bastava poco. Un gioco da ragazzi. Bastava allungare un braccio per poterla toccare. Il tempo dell’attesa stava per compiersi. Le cose stavano per cambiare. Da un momento all’altro. La vita mi attendeva, al termine di quella danza vorticosa. Tutta la vita che fino ad allora avevo solo intuito, immaginato, sognato. Forse era proprio quella la felicità. Quella sensazione. Non la realizzazione dei sogni. Ma la sensazione che questa fosse possibile. La sensazione che la felicità fosse lì, a portata di mano. Che ogni desiderio fosse realizzabile. Forse era già questa la felicità. Forse non era affatto necessario che i sogni si avverassero. Forse era sufficiente crederlo.
Manda via tutti, amore mio. Non ho bisogno di tutta questa gente per ballare. Non ho bisogno della loro musica. Non è sulla loro musica che mi devi vedere danzare. Perché non è la loro musica che mi solleva da terra e mi da girare, girare, girare, nel vortice di questa inaudita felicità. La musica sono io, amore mio. La musica viene dal mio cuore. Tutta la musica del mondo, amore mio, è qui, dentro di me, in questo girotondo che danzo qui, davanti a te. Mandali via, amore mio. Non voglio che con i loro strumenti stonati ti possano distrarre. Non devi distrarti, amore mio, questa notte. Voglio farti ascoltare tutta la musica che può contenere questa mia fragile anima, amore mio. La mia anima, sì: trasparente, leggera, capace di contenere tutta la musica del mondo e di fartela sentire nel lento silenzioso girotondo di una danza. Questa danza, che eseguo per te. Qui. Adesso. Scalza. Questa danza senza fine che misura il perimetro di questa stanza e di tutte le stanze del mondo. Questa mia danza circolare. Mandali via tutti, amore mio, che voglio danzare ...
Non saprei dire per quanto tempo volteggiai in quella stanza, sollevata nel vortice di una danza che scaturiva da qualche luogo oscuro nelle profondità delle mie viscere. Gli orchestrali si dileguarono alla chetichella. Rimase solo lui, unico spettatore. Non so per quanto tempo il vortice di quella musica senza rumore mi ha posseduta. Forse per pochi istanti. Oppure per interminabili ore. No. Non saprei dire. Non so neppure quanto tempo sia passato da allora. Forse non è trascorso neppure un minuto. Forse sono ancora lì, che danzo. Ancora qui che danzo ... Sull’onda di una musica senza rumore ...
Quando è accaduto tutto questo? Pausa. Forse non è mai accaduto. Pausa. Forse continua ad accadere. Il tempo è un serpente che si morde la coda.
La ragazzina, nel frattempo, ha di nuovo estratto il suo specchietto rotondo. Ha ripreso a dondolarsi e a canticchiare il suo eterno “Giro giro tondo”.
Ecco. Lui non c’è più nella stanza. E’ uscito sulle scale a fumare. La notte è chiara. Io continuo per un istante a danzare. Tutte le luci sono spente. Danzo nella luce della luna. Sulle note della musica che sale dal mare. La voce del mare. Danzo sola allo specchio. Ancora un istante. Poi mi fermo. Esco. Lo cerco. Lui è seduto in fondo alle scale. In silenzio. Gli passo vicino ridendo. Correndo. Lui si alza, getta la sigaretta e mi corre appresso. Mi raggiunge, mi cinge la vita con un braccio. Inciampiamo. Cadiamo rotolando nell’erba già bagnata di rugiada. Ecco, adesso lui mi sfiora il viso inondato della luce della luna. La sua mano scivola sul mio seno, indugia, mi accarezza. Poi scende lungo i fianchi, indugia ancora una volta. S’infila sotto la mia gonna. La sua mano leggera, sensuale. La musica dentro di me sale, trabocca, mi riempie di sé. La mia bocca si dischiude. Le mie labbra s’inumidiscono, vorrebbero morderlo, divorarlo. Rovescio la testa all’indietro, lo guardo negli occhi ... Ed ecco, all’improvviso, nuvole nere di tempesta si addensano nel suo sguardo. Lo guardo smarrita (sottovoce) «Che c’è che non va?», gli chiedo con un filo di voce. E già mi sono pentita della domanda.
«Che c’è che non va?», gli chiesi sottovoce. Eravamo usciti all’aperto. Lui mi aveva rincorso, afferrato. Eravamo rotolati nell’erba. Lui mi aveva preso ... poi, all’improvviso, quelle nuvole oscure, cariche di cattivi pensieri, che passavano nel suo sguardo. «Che c’è che non va?», gli chiesi sottovoce.
«Che c’è che non va?», gli chiedo con un filo di voce ...
«Nulla», lui mi rispose. «Nulla. Davvero».
«Nulla», mi risponde. Poi si alza, si fruga nelle tasche, indugia un istante, senza sapere che fare. Imbarazzato. Poi mi sorride.
Si alzò, mi sorrise: «Scusami, amore mio», mi disse, «Da quando sono tornato il mio umore è mutevole. Mutevole come un cielo di marzo». Poi mi rassicurò.
«Non è nulla», mi dice, «non devi preoccuparti».
«Non è nulla», mi disse, «Poi passa».
«Ho finito le sigarette», mi dice accartocciando il pacchetto vuoto. «Salgo alla Torre a prenderle. Ne ho un pacchetto nella giacca».
«Ho finito le sigarette», mi disse, «Salgo a prenderle. Aspettami qui». Così mi disse e si avviò verso la Torre, nella luce surreale della luna.
Ti aspetto ... E’ tutta la vita che aspetto ... Ecco. Adesso ce l’ho tutta davanti a me, la mia vita. Quella futura e quella passata. La vedo con chiarezza. Nel cerchio di luce della luna. Tutto si congiunge. Si ricongiunge. Mi sdraio nell’erba madida di rugiada. Spalanco le braccia. Galleggio sul flusso della mia esistenza. Ogni singolo avvenimento acquista un proprio senso. Ogni tratto ha la sua consistenza, la sua necessità, in un disegno generale che qui, ora, mi sembra di poter afferrare. Mi lascio trasportare da questa piacevole sensazione. Scivolo su di essa come su di un fiume lento di petali di rosa. Ogni cosa ha un senso. Un preciso significato. Tutto questo ha un profumo intenso. Inebriante. L’essenza della vita, della mia vita, mi pervade, mi ubriaca. Le immagini della mia vita passano come sequenze di un filmato alla moviola. S’inseguono. Si sovrappongono. Si confondono. Poi succede qualche cosa. Un rumore. Un’esplosione attira la mia attenzione. Un colpo di pistola. Mi strappa di sotto al corpo il morbido tappeto di sogni su cui galleggiavo. Un colpo tremendo. Una violenta irruzione del vento nelle quattro mura della mia vita. Un uragano che mette a soqquadro ogni cosa. Sì. L’esplosione veniva dalla Torre. Nella Torre non c’era nessuno. Nessuno tranne lui. Il mio ragazzo. Senza neppure rendermene conto balzo in piedi, corro verso la Torre. Salgo i gradini di pietra quattro alla volta. Spalanco la porta, mi arresto di colpo davanti all’orrore che scorgono i miei occhi. Il suo corpo riverso in un mare di sangue. Lui si è sparato un colpo in testa. Il pavimento è coperto di sangue. Lui. Il mio ragazzo. Dovevamo sposarci. Questa è la notte del nostro fidanzamento. Abbiamo ballato per tutta la notte. Ora il suo corpo è riverso in un mare di sangue. Ed io sono qui. Impietrita. Sulla soglia. Il tempo si eclissa. Sprofonda in un baratro oscuro. Tutto il tempo. La mia vita. Tutta la mia vita. Ed io qui. Sulla soglia. Impietrita. Mentre precipito in un abisso senza fondo. La mia testa è svuotata di ogni pensiero. Ecco. Adesso mi muovo. Agisco come un automa. Forse è stato l’orrore a mettermi in moto. Il perdurare dell’orrore davanti ai miei occhi sbarrati. La necessità di porvi in qualche modo rimedio. Ecco, mi muovo. Mi avvio verso una delle tavole imbandite. Afferro un lembo della tovaglia. Lo tiro verso di me. Non lo so quello che sto facendo. Bicchieri vuoti e pieni cadono al suolo. S’infrangono. Uno dei bicchieri si è salvato. Gira come una trottola. Cammino sopra un tappeto di vetri infranti. Il rosso del vino si mischia con quello del sangue. Non so perché sto facendo questo. Che senso abbia. Copro il suo corpo esangue col drappo bianco della tovaglia. Il bicchiere che si è salvato continua a girare come una trottola. Un colpo di vento spalanca la finestra. Come un automa di nuovo mi muovo. Mi avvio alla finestra. Per la frazione di un istante incrocio il mio sguardo nello specchio grande appeso alla parete di fondo. Mi guardo e non mi riconosco. Non c’è la bambina di un tempo, né la donna che ho scoperto stanotte, là dentro che mi guarda. Ma una vecchia dallo sguardo spento. Nel frattempo raggiungo la finestra. La richiudo senza rendermene conto. Cammino sopra un tappeto di ventri infranti. I miei piedi sanguinano. Io non sento dolore. Il bicchiere continua a girare come una trottola. Ecco, adesso rallenta la sua folle corsa. S’arresta. Mi chino. Lo raccolgo. Mi volto. Lo scaglio con tutta me stessa contro quell’immagine riflessa che non riconosco. Lo specchio s’infrange. Forse sono io quella dentro lo specchio. Forse ero io. Aveva una brutta faccia quella vecchia dentro lo specchio. Una faccia da vecchia megera. Non lo so chi era. Lui è morto. Io non sono più nessuno. E’ morto. Si è sparato un colpo in testa. Non lo so perché l’ha fatto. Dovevamo sposarci. Potevamo essere felici. Io adesso non sono più nessuno. I miei piedi sanguinano. Ma non provo dolore. Forse anch’io sono morta.
Ci sono cose che accadono. Senza ragione. Accadono e basta. E’ inutile pensarci. Come nuvole nere cariche di tempesta. Cose che ci piovono addosso all’improvviso. Così. Senza ragione. Cose che ci rovinano addosso. Inutile affannarsi. Inutile disperarsi. Prima o poi passano. Come nuvole nere cariche di tempesta. Nuvole passeggere. Non c’è nient’altro da fare che sedere e chinare la testa.
Lui è morto. Si è sparato un colpo in testa. Il suo corpo giace riverso in un mare di sangue.
Come sogni balenati appena prima dell’alba, che al risveglio non lasciano traccia. Solo un’ombra fugace. Solo l’eco di una voce che subito tace.
Io cammino sopra un tappeto di sogni infranti. Dev’essere successo qualcosa. Qualcosa di spaventoso. Non so che cosa. Qualcosa che mi ha sradicato dal mondo della mia infanzia che attraversavo a passo di danza. E mi ha scaraventato qui. Dentro questa stanza.
Solo un sogno. Soltanto l’ombra di un sogno.
Credo di aver fatto un sogno stanotte ... un brutto sogno ... Era un sogno, sì ... Credo di sì ... L’ombra di un sogno ... Soltanto un sogno ...
Ecco. La ragazzina, la donna e la vecchia estraggono contemporaneamente il medesimo specchietto rotondo, e passandosi una mano sulla fronte, col medesimo gesto, si ravviano i capelli.