Il taccuino di Amleto
Nota dell’autore
L’idea di questo libro è nata in altro libro. O, per meglio dire, una certa poesia contenuta in una precedente raccolta (Black Hole in Il taccuino rovesciato, vedi pag.30) conteneva il germe di questo libro: una sorta di finestrella che si apriva su di un mondo (immaginario) in cui un groviglio di riferimenti letterari e teatrali si intrecciava ad un groviglio di mie vicende personali e personalissime riflessioni. Per questo ritengo il presente una sorta di “libro-matrioska”.
A ben pensarci anche il mio secondo volumetto di poesie, Il taccuino rovesciato, che qui pubblico insieme al presente Taccuino di Amleto, aveva un analogo rapporto col primo (I fiori del silenzio): non a caso infatti la prima sezione si intitola, esplicitamente, “Altri fiori del silenzio”. (Chissà se anche il mio quarto volumetto di poesie…) Forse io stesso sono una specie di matrioska. Non so.
Quello che so, o, meglio, quello che mi sembra di intuire, è che intorno ad “Amleto”, da qualche anno a questa parte, si vanno affastellando e condensando immagini, idee, speculazioni estetiche… parole, opere e missioni… emissioni… omissioni…
Galeotto fu l’allestimento curato per il Teatro Asteria alcuni anni or sono che, in qualche modo, aprì il vaso di Pandora. O qualcosa del genere. O qualcosa degenere, tipo: sturò il cesso di Pandora, che forse è più appropriato.
A dire il vero mai e poi mai, di mia sponte, avrei osato cimentarmi col sublime testo del bardo sublime, ma io, lo confesso, sono artista di facili costumi, incapace di dire di no ad una proposta indecente, e quando tre anni fa la direttrice dell’Asteria, Bianca Gaudiano, mi propose di lavorare su quel magnifico monumento che è il castello di Elsinore, io non seppi resistere alla tentazione (consueto peccato di superbia) e subito, tracotante di smarrimento panico, misi mano al piccone. O almeno così credevo. Ma più ci davo dentro per smontarlo e farlo a pezzi, più quell’edificio infernale, in qualche oscura maniera, si ricostituiva (più o meno) tutto intero. Ed alla fine il piccone si rivelò una cazzuola. E dai ruderi fumanti di nuovo sorse l’antico maniero, anche se travestito da studio televisivo.
E più temevo di essere infedele alla lettera e più ero fedelissimo nella sostanza, come un amante appassionatissimo che più frequenta altre donne e più torna dall’amata scoprendo in essa, moltiplicati per cento, tutti i vezzi, i vizi e le virtù che lo avevano attratto nelle altre, e le sue velleità da libertino non fanno altro che rafforzare la sua sostanziale, se non formale, fedeltà.
Quasi senza rendermene conto utilizzai per quell’allestimento una quantità di materiali, idee, approcci apparentemente extra-teatrali, che nella maggior parte dei casi appartenevano più al bagaglio delle mie esperienze (da artista, da critico o da semplice fruitore) nel campo delle arti visive che non a quello registico. Anche se fortemente “registiche” furono poi l’orchestrazione globale, la riduzione all’essenziale dei mezzi espressivi, e una sorta di feroce coerenza nell’usarli.
Va detto per inciso che, sebbene abbia da sempre ritenuto il Teatro il crocevia di tutte le arti, il luogo virtuale (e virtuoso) dove ogni forma di espressione artistica (la poesia, la musica, la danza, la pittura, la scultura, l’architettura, la recitazione) potesse trovare sintonia e risonanza con le tutte le altre, dando vita ad una forma espressiva ulteriore in grado di trascendere la somma delle sue parti, tuttavia non da sempre le mie parallele conoscenze e competenze acquisite nei vari campi artistici avevano avuto un ruolo importante nella mia attività di regista. Anche se, a ragion del vero, negli ultimi quattro o cinque anni la tendenza, più o meno timidamente, pareva essere in quella direzione.
Mai tuttavia, fino ad Amleto, un lavoro teatrale mi aveva poi ispirato quadri, sculture, poesie… e addirittura aforismi!
Il fatto è che, molto probabilmente, accanto ad una sorta di mobilitazione globale e simultanea di tutte le mie strampalate ed eterogenee competenze letterarie, teatrali e artistiche, attivatasi dinnanzi alla velleitaria e prometeica necessità di scalare il massiccio dell’Amleto, si era andata disvelando, giorno dopo giorno, la straordinaria modernità di contenuti e implicazioni presenti nel testo shakespeariano, che era finito col divenire metafora, agli occhi pieni di stupore della mia anima, delle mie stesse emozioni, inquietudini, elucubrazioni estetiche, esperienze di vita quotidiana e piccole riflessioni sulle grandi sempiterne questioni dell’esistenza umana… Hai detto poco.
Così, alla soglia dei quarant’anni, dopo aver oziosamente vagabondato nei territori più disparati dell’espressione artistica per più di quattro lustri, mi pare finalmente d’intravedere una radura dove molte se non tutte delle strade percorse parrebbero confluire. Anzi, no. Non si tratta di una radura, ma di un promontorio sulla cui sommità si erge... il Castello di Elsinore.
La dolce ala della giovinezza
Un giorno ha sfiorato anche me
la dolce ala della giovinezza
come tiepide lingue di iguana
le sue piume di fuoco hanno lambito
questo mio corpo pingue
e un fremito ebbro
ha segnato il mio destino...
Sì. Ne sono certo.
Un tempo ha sfiorato anche me
la soffice ala della giovinezza,
e questo deserto è stato un giardino fiorito...
Ma non ricordo quando...
Forse fu mentre flettevo
il mio tronco di ciliegio in fiore
al soffio del vento d’oriente.
O mentre riflettevo
all’ombra degli ulivi di Grecia
sull’eterno ritorno delle stagioni,
o sull’origine di tutte le cose,
e intanto, distrattamente, coglievo
da un cespuglio di rose accese
rami di spine per farne una corona
e cingermi la fronte,
mentre l’ultima ninfa
svaniva all’orizzonte
con un timido folle sberleffo,
e io pazzo di filosofia
correvo sugli spalti
appresso ad uno spettro
che portava a spasso il mio nome
e aveva un elmo di latta sulla testa
e uno scettro di cartapesta...
Però ne sono certo:
un tempo toccò anche me
la bianca ala della giovinezza,
come brezza di mare che sale la sera verso terra
e sembra stemperare la vampa meridiana,
mentre invece ne ravviva la brace
e incendia il cuore dell’estate
sull’orlo della primavera.
Sì. Ne sono certo.
Un tempo ha accarezzato anche me
la dolce ala della giovinezza.
Lo deduco dalla melliflua malinconia
che adesso al solo ricordo mi afferra.
Poco importa se talvolta
confondo la memoria
con la fantasia.
Malattia di una famiglia
che ha costruito la sua casa
come un castello sulla fanghiglia.
Il privilegio
Strana figura mio padre.
Quando appare a tutti
parla a me solo
e mi narra del gorgo e dell’abisso,
e mi condanna in un sol colpo
all’azione e alla dannazione.
Altre volte io solo lo scorgo
stagliarsi come un’ombra discinta
sul fondo di un arazzo
e ci parlo,
e mi pigliano per pazzo.
E il privilegio, lo strazio
che mi è concesso,
non lo condivido con nessuno.
Nemmeno con Orazio.
Il rifiuto
Exit-Action: Hesitation
I
No. Non esco. Non varco la scena.
Me ne sto qui. Al caldo.
In questo doppio fondo di arazzi,
dietro la fitta coltre delle tende.
Rivendico la mia tragica, sobria,
ambigua ascendenza greca.
Rifiuto tutta questa britannica esibizione:
di sangue, spade, veleni.
Rifiuto di esibirmi.
Rifiuto di esibire l’azione.
L’azione si nasconda dietro la tenda
oscura dell’immaginazione.
Affinché un dubbio si annidi nel cuore
e salvi la coscienza dello spettatore
da un lampo di luce senza scampo.
L’azione si nasconda
dietro una coltre di parole.
Non venga esibita: sia raccontata.
Affinché un dubbio resti
E preservi i cuori dall’inverno.
Detesto tutta questa smania inglese
di azioni sanguinarie.
Non mi appartiene: io sono danese.
E rivendico dietro la mia anima amletica
una maschera orestea.
Lo sciame di ombre e dubbi che mi assale
un autore diverso dall’odiato baronetto
lo avrebbe facilmente chiamato
il Coro delle Erinni,
gettando una luce mitica
sui miei balbettamenti.
E la risoluzione finale
l’avrebbe delegata
alla pura e semplice narrazione,
lasciando spazio
a un personaggio secondario.
E il mirabolante strazio
dell’ultima stretta
si sarebbe risolta
in una paginetta
del diario di Orazio.
II
Ecco, sì. Rifiuto. Rinnego il quinto atto.
Lo espungo prima di averlo espiato.
Non è in quella accozzaglia truce
di versi spurii e impuri gesti
la mia essenza.
Rivendico come mia cifra all’incanto
la mancanza assoluta di azione:
la pura contemplazione,
l’astratta immanenza,
l’esercizio di uno stile di sofistica
e sofisticatissima ragione,
sofisticazione che genera guizzi di ingenio,
muove al riso, allo sconcerto,
alla riflessione.
Ma non passa certo sul filo di una spada.
Semmai su quello di un rasoio.
O di uno specchio.
No. Non uccido e non muoio.
(Il tempo passa e non invecchio).
Non mi muovo di un passo,
pur visitando molti luoghi
e assumendo molte identità.
Sono qui e sono altrove,
in forma di singolare pluralità.
Esisto. Esito ed esisto.
Sono e non sono.
Cogito, ma senza la pazienza di Cartesio.
Vaneggio vanesio,
affranto senza disperazione.
E questa canzone è il rogito
della mia assenza..
(Tra l’essere e il non essere
alla fine scelgo di non uccidere).
Altrimenti
La solitudine di un futuro re
si misura dall’affastellarsi di ombre
che si credono gente intorno a te
mentre esegui i tuoi esercizi spirituali
in forma di danza o di vacua vacanza,
e non provi rimorso per l’altrui differenza...
La solitudine di un futuro re
la leggi in trasparenza
nel vuoto che si apre al tuo passaggio
- il vuoto: diafano, ineffabile peso-
quello labile esterno e quello dentro
che dell’altro è risonanza
e che avanza senza tregua
e si fa largo nelle maglie sfibrate del cuore,
si fa essenza, sostanza, soverchia presenza...
Ci vorrebbe il genio inumano di un Caligola
per giocare questa parte adeguatamente,
e farsi atroce burattinaio
dell’unico Teatro della Crudeltà
che abbia (o avrebbe) un senso...
Ma sarebbe tutta un’altra storia:
niente a che vedere con le nebbie
di Danimarca.
Ci vorrebbero lame di luce abbacinante
e precise attitudini chirurgiche.
E non le esangui sanguinarie tragedie liturgiche
fatte di feroci esecuzioni
ed esequie lamentose
che quell’onestissimo baro del Bardo
ci propopina in salsa agro-dolce.
E pensare che anziché essere
tra le mani del Bardo
avrei preferito avere tra le mani la Bardot:
altro che quella bamboletta-mammoletta
di Ofelia.
Ma, tant’è. A ciascuno il suo.
Inferno o Paradiso.
E ciascuno a suo modo...
Ma è da quattro secoli ormai
che cerco indarno di decifrare il mio,
rovistando tra un monologo e l’altro
della mia sublime ineffabile parte...
E mi chiedo, di tanto in tanto,
se almeno lui, l’Autore, sapesse
qualcosa in più sul mio conto
qualcosa in più di quanto emerge dai vaghi
discorsi altrui e dai miei sproloqui colmi
di eloquenti incertezze, di filosofia spicciola
(che alla fine, diciamolo, non paga),
e di vani proponimenti.
Altrimenti...
Come Quando Fuori… Fiori
Vedo la bocca di mio padre parlare
nel vago riflesso di un monitor
e dire parole inaudite
- o per lo meno fuori sincrono.
Anche la musica che scandisce
il mio tempo è fuori tempo.
E la mia presenza qui,
nel castello di Elsinore,
del tutto fuori luogo.
Ma nemmeno sotto gli archi
sapienti di Wittemberg
i miei occhi-piedi-mani
pieni d’inquietudine
sapevano trovare una pietra
o un libro su cui posarsi,
riposare e sentirsi a posto.
Nemmeno tra le onde,
sulla nave del tradimento.
O poi sulla riva dell’eterno riposo.
E’ destino di chi porta il mio nome
vagare all’inferno.
E chissà se lei, il mio fragile doppio,
tra flutti più modesti e fiori colorati
che sciamano dalle sue braccia aperte,
ha trovato la pace,
lontana dai miei libri rovesciati...
Chissà se almeno lei...
Lo spettro
Piccole scaglie di luce
Non ho creduto
al baluginare incerto
di piccole scaglie di luce
nella nebbia proverbiale
in cui affonda la rocca
e ci fa confondere
il giorno con la notte,
la vita con la morte,
i matrimoni con i funerali...
Gli uomini della ronda
erano ombre evanescenti.
Parole segrete
si rincorrevano
di bocca in bocca.
E quando di nuovo
ho veduto balenare
quelle piccole scaglie di luce,
le ho credute il riflesso della luna
sulle onde del mare.
E l’ombra di Orazio
mi ha rincuorato:
“Non si muove un topo
in questa notte
d’incubo infranto”
Allora ho risposto,
meccanicamente:
“Se non un topo,
forse un serpente”
E poi ho pensato
che forse erano
squame di serpente
quelle piccole scaglie di luce
che lampeggiavano a tratti
tra gli spalti, e che gli altri,
ubriachi di paura,
giuravano si trattasse
delle maglie di metallo
di una vuota armatura.
Ho distolto lo sguardo
e con voce roca ho imitato
il canto del gallo.
Rosenkranz e Guildenstern
Nessuno sospetta la verità
sul triplo gioco
dei due pupazzi siamesi,
amici di latta
mutati in marionette
nelle mani del re.
Due vagabondi che come me
vagavano di bettola in postribolo
e viceversa,
sempre sbronzi di femmine e luppolo.
Li ho incontrati per la prima volta
in vita mia alle porte di Elsinore
il giorno del mio ritorno
e subito li ho assoldati
come comparse
per l’ultima delle mie farse,
al solo scopo di convalidare
l’enorme, colossale frottola
della mia permanenza a Wittemberg.
Interpreti perfetti per tener botta
alla mia filosofia da osteria.
Non ero il solo d’altronde
a raccontare favole
nella reggia di Danimarca.
E le mie, infondo,
erano le più innocue.
Nè ero il solo ad avere ambizioni
da Mangiafuoco
io, burattino di me stesso.
Rosenkranz e Guildenstern
furono vittime del gioco.
Come il fatuo Polonio
e la dolce Ofelia
e il solerte Laerte
e l’ambigua, sensuale Gertrude
e il rozzo, rude re Claudio
e quell’ombra di un sogno obsoleto
che gli spettri chiamano Amleto.
Lettere ad Ofelia
I
Mia dolce Ofelia,
in pochi giorni, dopo il mio ritorno,
ho assistito a un prodigio:
ho visto un abito di bambina
gonfiare le vele
al soffio dell’adolescenza
e fremere inquieto
ai palpiti rapiti della pubertà,
colmo di muta trapidazione...
E colme di muta trepidazione
le mie mani inquiete
allentare i lacci della castità
e lasciar cadere
quelle vestigia d’infanzia
lungo i fianchi
di una fanciulla in fiore...
E un fiore sbocciare
tra le mie mani inquiete
e dischiudersi al tocco
delle mie mani inquiete
e l’abito leggero dell’innocenza
volare tra l’erba
sulla riva di un torrente in piena
e tutte le mie certezze,
tutta la mia filosofia
di studentello di Wittemberg,
impigliarsi tra gli sbuffi
di quell’abito nell’erba
e le mie mani inquiete
tremare come foglie al vento,
incapaci di portare alla bocca
i petali di quel fiore...
E ora, ecco, ti scrivo.
E relego alla letteratura
il compito ingrato di raccontarti
le incerte ragioni delle mie esitazioni
e le mie mani tremanti
e la paura che sempre mi aleggia
intorno come uno spettro
e il profumo ubriacante
di un fiore non colto...
II
Mia dolce Ofelia,
perdonami se stanotte irrompendo nelle tue stanze ho fatto il pazzo.
Perdona le stranezze di questo ragazzo costretto a fingersi uomo...
Avrei voluto raccontarti di me, degli spettri che minacciano le mie notti, eludendo la guardia dei miei pensieri armati.
La filosofia... a questo è servita tutta la mia filosofia: ad istruire i miei pensieri insegnando loro quattro passi cartesiani e cingendone i lombi di spade affilate da un barbiere di Occam. Così conciati fanno la ronda sugli spalti per difendermi da queste ombre infernali che portano il mio nome e reclamano il mio sangue...
Perdonami se avendo riconosciuto nell’inquietudine delle tue mani, delle tue vesti, dei tuoi sguardi la stessa mia inquietudine, ho creduto, da folle che sono, che in un gioco di specchi avremmo potuto incontrarci, dimenticando come andava a finire la storia d’amore tra Eco e Narciso...
Nel teatro del Gran Mondo
Sproposiloquio I
Nel teatro del Gran Mondo
mi sono messo in mente
di giocare tutte le parti
con-tem-po-ra-ne-a-mente:
attore, regista, drammaturgo
e critico teatrale.
E cantare e suonare e portare la croce.
Così purgo la mia inquietudine,
per quanto vale,
forgiando la mia anima-corazza
tra l’incudine del pubblico
e la mazza del mio Karma.
E la forma della mia verbosa spada,
se non mi sbaglio,
è un’arma a doppio taglio.
E la mia voce è un raglio feroce,
un maglio, e un soffio di vento.
E il mio tormento
un sollazzo per chi guarda.
Teatrino
Anacronismi
Che teatrino mesto e meschino
questo che si erge sulla rocca
di Elsinore:
un re laido e fratricida
da sceneggiata napoletana,
una regina scendiletto
da film di Lattuada,
un ciambellano che sforna
rancide ciambelle sformate
e le imbandisce spacciandole
per cialde di saggezza,
e poi pupi sugli spalti,
e pupazzi dietro gli arazzi,
e sprazzi di niente
tra le nebbie del poco
e un bel tenebroso
da fumetto noir francese
che prima di farne le spese
cerca inutilmente
di farsi Mangiafuoco,
ma poi, dietro le quinte,
prima del quinto atto, si pente,
e rimpiange il tempo lieto
quanto sul continente
se trasformava la vita in gioco
non riceveva in cambio
veleno sulla punta di una spada,
ma applausi o fischi.
Corre dei rischi
un guitto in Danimarca
quando ha l’ardire
di farsi chiamare Amleto.
C’è del marcio in Danimarca
Sproposiloquio II
Quando dalla barca del naufragio
Amleto sbarca
sulla marca di Danimarca
per la seconda volta
la prora affonda in terra consacrata,
e in una sola occhiata
è svelata l’origine del miasma
che ammorba la contrada:
una coppia balorda di becchini
da operetta scoperchia ogni tomba
e scava ogni fossa
lasciando cadaveri e ossa
all’aria aperta.
E la nebbia che sale all’irto colle
là dove sorge il Castello spettrale
non è nebbia, ma fetore di morte.
C’è del marcio in Danimarca II
No. Non è il cadavere di Polonio
lasciato marcire nel sottoscala
della mia ragione
che rilascia questo fetore di morte,
ma la caduta dei miei sogni di ragazzo
nella battaglia con la sorte di un uomo
che si aggira braccando la sua ombra
ed è votato a recitare controvoglia
la propria tragedia come fosse una farsa.
E questi versi sono la pira
su cui la mia onirica spoglia
stanotte viene arsa.
Castelli di sabbia
Ancora una volta faccio naufragio
e trasformo una anonima spiaggia
nelle sponde di Danimarca
e un castello di sabbia
nella reggia di Elsinore.
Poi estraggo dalla bisaccia
la consueta teoria
di soldatini di piombo,
bambole di pezza, manichini,
pupazzi, maschere e burattini,
e recito la mia storia,
anche se la so a memoria,
come se fosse la prima volta,
dando voce ad ogni personaggio.
E sapere che è tutto un gioco
è un vantaggio non da poco.
Il metodo e la follia
Dicono che la mia
sia follia simulata:
una astuta ragione
si celerebbe in agguato
dietro l’ingenuo travestimento.
A riprova di ciò
citano l’eccesso di coerenza
e un certo “metodo”
che parrebbe balenare
nelle tenebre del mio delirio
così denso di metafore
e di oscuri presagi…
Come se la follia
non fosse proprio questo:
eccesso di coerenza
e un certo “metodo”
nell’intendere la vita
così densa di metafore
e di oscuri presagi…
Poiché in verità in verità vi dico:
il metodo “è” la follia.
(E viceversa).
Waiting for Hamlet
Stanotte ho visto in sogno
il mio simulacro
in compagnia del fido Orazio:
entrambi vestiti di stracci
e seduti all’ombra
di un alberello scheletrico,
in attesa di uno spettro
chiamato Godot.
C’erano anche Polonio e Laerte
en-travesti: l’uno portava
l’altro al guinzaglio
(o viceversa).
Polonio l’ho riconosciuto subito,
poiché straparlava come sempre.
E come sempre si faceva
della gran filosofia.
Di giorno infatti si davano nomi
cangianti alle nuvole,
e di notte si contavano le stelle
sulla punta delle dita.
Poi venne un soldato
a dirci che anche quella volta
lo spettro si era dato malato.
Aforismi ed epigrammi
dal taccuino di Amleto
Amleto, ovvero l’insostenibile leggerezza
dell’essere o non essere.
Tra l’essere e il non essere
preferisco aspettare Godot.
Sullo spettro,
sulla verità
e sulla filosofia
Nessuno spettro sugli spalti:
solo un’ombra, un vago
evanescente riflesso
nell’abisso di uno specchio.
Se la verità è menzogna
e la menzogna è verità,
io sono senz’altro Amleto.
Un temibile spettro si aggira
prigioniero in un castello
di menzogne disarmanti:
la verità armata.
Tutta la mia filosofia
è un’armatura vuota.
La verità nascosta
nella mia fatua filosofia
è uno spettro chiamato Amleto
che di notte si arrabatta
in una scatola di latta
e di giorno s’infratta.
Ci sono più cose tra cielo e terra
di quanto non sospetti la tua filosofia,
Orazio… La tua, Orazio. Non la mia.
Solo la morte poteva arrestare
il mio dissertare.
Dissertare è un modo astuto
per disertare:
in questo Amleto
è discepolo di Ulisse.
Sulla ragione
e sulla follia
La pura ragione
è follia pura.
La ragione si dà ai folli
non per paura o per pietà,
ma per senso di realtà.
La follia ha sempre ragione.
La follia non sente ragioni.
La follia ha delle ragioni
che la ragione non conosce.
La follia è la ragione
senza ragione.
A furia di aver ragione
si può perdere la ragione.
Tutto ha una ragione,
tranne la ragione stessa.