Principali mostre personali 2013/ 2018

Alla Galleria ItinerArte, Venezia, Rio Terà della Carità -Dorsoduro 1046 (accanto alle Gallerie dell'Accademia)

14 aprile - 1 maggio 2018, "Parafrasi veneziane"

Alla Galleria Cantiere Barche 14, Vicenza, Stradella Barche 14

14 gennaio-28 febbraio 2018, "Giorni di freddo", a cura di Paola Caramel

Alla Galleria ItinerArte, Venezia, Rio Terà della Carità -Dorsoduro 1046 (accanto alle Gallerie dell'Accademia)

5-14 settembre 2017, "Skylines et Silhouettes", nell'ambito della rassegna "AUT-OUT OF-F BIENNALE"

A Castel dell'Ovo, Napoli, nell'ambito del Progetto DRAMATIS PERSONAE.

Dal 16 gennaio al 14 febbraio 2016.

Virgilio Patarini - DRAMATIS PERSONAE 2016. Org.  Zamenhof Art, in collaborazione col Comune di Napoli - Assessorato alla Cultura, e col patrocinio dell'Unesco di Napoli.

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A Palazzo della Racchetta, Ferrara, via Vaspergolo 4,6,6a, Ferrara Art Festival -Extra Time

Dal 21 AL 30 agosto  2015:

Virgilio Patarini - EX-PO(st) 2015

personale antologica

-clicca qui per foto allestimento

Presso il Complesso Museale Ricci Oddi. Piacenza, via S.Siro, 13

Dal 16 AL 22 maggio  2015:

Virgilio Patarini - EX-PO(st) 2015

-clicca qui per foto vernissage e allestimento

Alla Galleria Spazio Libero 8, Milano, Alzaia Naviglio Pavese, 8

Dal 18 AL 24 APRILE 2015:

Virgilio Patarini - Giovanni Drogo, NAVIGLI CORSARI E ALTRE STORIE

Alla Galleria del Rivellino, Ferrara, via Baruffaldi, 6

Dal 19 luglio al 3 agosto 2014:

Virgilio Patarini - Luigi Profeta, MEMORIE CONDIVISE

Alla Galleria 20, Torino,

Corso Casale, 85

Dal 10 al 23 maggio 2014:

Virgilio Patarini, ZIBALDONE 2014

Mostra personale di pittura

SPAZIO E, Milano

Stratificazioni

mostra bi-personale di Raffaele De Francesco e Virgilio Patarini

Dal 15 al 28 febbraio 2014

ROCCA VISCONTEA, Lacchiarella (MI), dal 30 nov. al 12 dicembre 2013:

LA RUGGINE E LA LUCE, mostra personale di Virgilio Patarini

Il taccuino rovesciato

 

1- Altri fiori del silenzio

(e qualche canzonetta scanzonata)

 

 

Introduction to the blues

 

Rileggere oggi parole dette

e non dette,

come se fossi sempre stata tu

l’ombra che affiora

dietro le tende

l’ombra che attende e mi ascolta

e mi sorprende ancora una volta,

nell’ora in cui la mia voce

risuona lenta, lontana e sorda

e il mio canto scordato si scorda...

 

Ripetere oggi ogni parola detta

e non detta,

come se fossi tu, sempre tu,

l’ombra che mi aspetta

dall’altra parte,

l’onda lenta in cui affonda

l’eco della mia voce,

come nella risacca,

e si perde e si ritrova:

parole vecchie su musica nuova...

 

Riscrivere oggi parole già dette,

imprecise, imperfette,

rose recise in inverno,

per mera impazienza,

confuso il mattino con la sera.

Vano esercizio di sopravvivenza.

 

 

 

La poesia si nasconde.

 

Dicono che la poesia si nasconda

nelle piccole cose:

nelle ombre azzurrine,

nella fessura verde di muschio

che si apre nel muro,

in un repentino barbaglio di sole

sulle trine delle tende bianche,

nel silenzio dei sassi arsi d’estate,

nella biglia di vetro colorato

di quando eri bambino.

Altri hanno insinuato insinuarsi

nel gioco delle parole:

quelle che rimbalzano sotto i palati

in distici raffinati,

con piccole, gorgoglianti

cascate di suoni;

o rifluiscono come onde lunghe

in laici golfi mistici.

Altri ancora sostengono

che si nasconda nel fuoco

che arde in petto e trasforma

il cuore in un crogiolo

dove forgiare lame d’argento,

collane d’oro e soldatini di piombo.

Sì. Dicono che si nasconda. La poesia.

E fa bene, di questi tempi.

E io non sono certo

tipo da fare la spia.

 

 

 

5 luglio 2004

 

Ombre di amici di plastica

mimano una grottesca

danza orgiastica

sulla tomba del mio cuore:

dissacrano il luogo,

barbari ubriachi di vacuità,

non risparmiano nulla:

né la lapide, né il cumulo di terra,

né il fiore sulla pietra,

né l’anfora delle libagioni

che qualcuno tocca, afferra

e porta alla bocca sacrilega…

Legioni di demoni inermi

covano vendetta

nella cavità del mio cuore

incapaci di accettare la disfatta…

vanità di un amore.

Domani della tomba non resterà traccia.

Né ombra della mia faccia

divorata dai vermi.

Vano il sarcasmo.

Vano anche questo patetico

ultimo romantico spasimo

- vivo rigurgito di lettera morta.

Vani la rima e il chiasmo.

Tu non mi ami più.

Nulla sarà più come prima.

Il mio cuore giace

sotto due metri di virtù.

 

 

 

 

Assenzio

 

L’assenzio della tua assenza

stilla

acide gocce

nelle cavità del mio cuore

da una scheggia conficcata

altrove.

Ogni goccia che cade

riecheggia

nelle vacuità del mio cuore

e corrode

i petali e le foglie

dei fiori del silenzio.

Ricordo quando alle soglie

e alle finestre

fiorivano germogli

bagnati dalla rugiada

della tua presenza.

Bei tempi quelli!

C’era musica che pareva nuova,

allora, nell’aria.

Niente a che vedere

con gli esangui riecheggiamenti,

strenui rifacimenti,

vacui arrangiamenti

che risuonano ora.

Rigurgiti estremi del silenzio,

per un banale finale “in morendo”.

 

 

 

Barchette di carta

 

Ho messo poche parole in fila.

Spesso le stesse. Spossate. Spaesate.

E qualche sparuta rima.

Certe parole ripetute: solo suoni,

ritornelli. Giochi di bambini.

A volte, forse, banali esorcismi:

versi frusti, scarsi,

sparsi qua e là in vena di catarsi.

Altre volte chiasmi

e sapidi, rapidi, ripidi sarcasmi:

inutili spasimi della mia ombra

aggrappata romanticamente

alla carcassa di un corpo disteso

sopra un tavolo d’obitorio

con un cartellino appeso

ad un piede petrarchesco

col mio nome su -o pro- scritto.

 

Solo questo passa il convento

della mia prematura clausura

- o sepoltura, che fa lo stesso.

E l’arsura di un cuore oceanico

che fa barchette di carta

nella fontana di un chiostro.

 

 

 

Nel giardino del re

 

Nelle notti senza luna scavalco

le mura di un giardino abbandonato.

Dicono fosse abitato

da un re, un tempo.

Ora è soltanto un ammasso

di sterpi e di sassi.

Io scavalco le mura ogni notte,

e coltivo come un ladro

un angolo di quel giardino:

semino con pazienza, a mani nude,

quadrifogli squadernati,

e altre simili primizie dozzinali,

e li bagno con gocce

di onirici distillati.

Nonostante tutto, infatti,

i sogni fermentano ancora

nel fondo delle mie tasche,

specie quando passeggio

per strade sperdute e assolate,

desolate, in cerca di niente.

E che sorpresa (e che spasso)

quando stanotte mi sono avventurato

in un angolo ancora inesplorato.

E in un labirinto di rovi

il prodigio di una scoperta:

una statua di gesso grigio

che portava una corona sulla testa

e sul volto stampata la mia effigie.

 

 

 

 

Inappartenenza

 

L’inappartenenza

di tutte queste figurine scialbe

che danzano attorno alla mia testa,

come falene

attorno al mio cadavere in fiamme,

no, non mi spaventa:

fotografie

di un vecchio album di famiglia

che qualcuno, per sbaglio,

ha scambiato col mio

e lasciato sul comò

in una stanza d’albergo.

 

Ecco. Albergo. Albeggia

e io albergo fuori di me.

Vago fuori di me.

L’unica coerenza che mi concedo,

come un inutile lusso,

è la contraddizione.

Vago. Calpesto la mia ombra,

in una notte fitta e senza stelle.

Affondo nella mia ombra,

e nell’ombra mi confondo,

senza più stelle fisse in cielo

né fissa dimora sulla terra.

 

L’ombra mi afferra.

Abito la mia ombra

come una casa senza ombre

e senza giardino. Un lungo sogno

senza requie. E senza la carezza

di una palpebra che passi

su gli occhi il suo panno

di effimero oblìo.

 

Tu non sei qui.

Nemmeno quando ci sei.

E anch’io, forse, sono assente.

E di certo sono troppo vecchio

per giocare con le figurine.

Queste figurine scialbe

che per lo più, credo,

si credono gente.

 

 

 

 

Le rose del deserto..

 

Le rose del deserto

Mio giardino

Non cadono

Sono poche e dure

E hanno forme strane

Inconsuete

Rose clandestine

Travestite

Rose in forma di moke

E al posto delle spine

gocce di caffè che stilla

Sangue nero che mi rode

Corrode

Non il cuore,

Ma la bocca

Dello stomaco

Le ferite

In forma di gastrite:

Le stigmate da te lasciate

Nelle mie innumerevoli vite.

 

Parole

 

La parola fugge. Sfugge.

Cade nel vuoto di un’altra parola.

Ricade.

Risuona.

Ci sono parole cave

ed altre piene, o piane, convesse,

ri-colme di promesse,

o sospese, incerte,

riflesse,

refrattarie ad essere rinchiuse

in un cerchio di gesso,

alate come l’anima di Puskin

spiccata

sugli abissi del Caucaso

e al tempo stesso rinchiusa,

richiusa su se stessa.

Ci sono parole anima.

E parole corpo.

E parole inutili ma rassicuranti,

come queste.

 

Canzonetta blues

 

Quella porta chiusa tanto tempo fa…

Il suono di quella porta chiusa

che ancora riecheggia qui,

nella mia testa…

La testa tra le mani…

Giorni vuoti a perdere,

senza domani:

sillabe che cadono al suolo

senza fare rumore,

solo un tonfo sordo

riecheggia qui,

nella mia testa…

Il ricordo di quella porta

che si chiude alle spalle…

Alle tue spalle,

sopra la mia testa,

una nuvola che non passa…

Un’ombra che resta

impigliata tra i rami

di un giorno vuoto a perdere,

senza domani…

 

E l’economia bastarda di una rima

che prima ti scava la fossa

e poi rompe l’urna:

e la tragedia se ne va in burla.

 

 

 

 

Armi e bagagli

 

Così ho fatto armi e bagagli.

Ma le armi erano spuntate

e i bagagli legati con lo spago:

c’era un sarcasmo di maniera

e fuori corso, c’erano 7777 libri

letti e dimenticati,

c’era l’eclissi di una verga solare

in una sera di nebbia e di pioggia,

e una scheggia di ferro

con inciso il mio nome

in caratteri ignoti.

E poi non avevo un posto

dove andare,

né un treno, o una nave

da prendere.

Così mi sono accampato,

con le mie armi spuntate

e i miei bagagli legati con lo spago,

in un ripostiglio

pieno di luci e di ombre,

di paura e di speranza.

Alla stazione di partenza.

E spio dal buco della serratura

l’andirivieni della tua assenza.

 

 

 

 

Pane azzimo

 

Ho rinunciato agli stillicidi letterari

del mo povero cuore.

Mi sono preso una vacanza

da me, dal mio inquieto umore

di poeta spaesato

e scrivo amare canzonette

d’amore in rime baciate

dalla cattiva sorte.

Parlo solo di porte chiuse,

giardini incantati e ombre danzanti.

Le api ronzanti sciamano altrove.

Domattina a colazione niente miele:

caffè nero bollente

e pane azzimo.

Come sputtanarsi le interiora

in un attimo.

 

 

 

 

Per aspera ad astera

I - Sfere celesti.

 

Ti ho amato così tanto

da cancellarti dai miei giorni.

Anche adesso che ti parlo,

e parlo di te,

tu hai perduto forme e contorni.

La curva ellenica dei tuoi fianchi,

troppo levigata dai miei sguardi,

ha perduto ogni realistica parvenza,

trasfigurata in astratta, astrale perfezione

di sfera celeste o di luna piena.

Così il tuo volto e il tuo ventre.

Il tuo corpo

un’interminabile teoria

di sfere concentriche:

una visione cosmica e armonica

degna di un epigono di Pitagora.

Ecco, così la tua assenza,

ora, ho mutato

in sublime essenza.

 

Ma alla contemplazione

dell’essere

ho preferito sempre

la più prosaica soddisfazione

dell’averti.

 

E tutto questo è solo poetica,

patetica masturbazione.

 

 

 

Per aspera ad astera

II - Black Hole

 

Il collasso siderale

che si è aperto nel mio petto

un milione d’anni fa

quando ieri tu mi hai detto “Adieu”

senza muoverti d’un passo

come un clone di Estragone

Ed io ti ho risposto “Adieu anch’io”

senza muovermi di un passo

come un vago Vladimiro…

E adesso, dopo un rapido giro di stelle

avvitate alla volta celeste, a tempo di valzer,

con un Black-hole-and-Decker,

provo sulla mia pelle l’inevitabile

sconquasso di questa attrazione

fatale, gravitazionale

che precipita ogni mio atomo

nell’abisso oscuro della tua mancanza.

Ma il suono provocato da questo cataclisma

non somiglia all’astrale armonia

udita da Pitagora in una notte etnea,

ma piuttosto al risucchio a spirale

di un lavandino sturato.

E in tal gorgo affonda e svanisce

un universo:

i fiori di una fanciulla mai deflorata,

le barchette di carta assorbente

che un Amleto distratto ha varato

nella stiva di un viaggio sottovalutato,

tutti i volumi tralasciati a Wittemberg

e la diafana vacua armatura

che si aggira per l’Europa

in cerca della sua ombra,

e poi gli amici di pezza,

e le ombre dietro gli arazzi,

e i nostri rari guizzi di ragazzi avvizziti,

e gli sprazzi di sole nella nebbia di Elsinore,

e i guazzi e il colore cangiante

nella notte della ragione,

e questo mondo pazzo

dove tutto ha una ragione

tranne la ragione stessa.

E se parliamo

è solo perché siamo

senza parole

 

 

 

 

Per aspera ad astera

III – S. Lorenzo

 

Lo stillicidio di stelle

che stanotte dissangua il cielo

mi lascia indifferente.

Non odo le sinfonie seriali

delle sfere siderali,

né il murmure inquieto

del mare.

Le mie membra giacciono

inermi.

Forse sono già morto,

e mi hanno lasciato così,

impietosamente

buttato sulla battigia.

E questo non è il mare,

ma la palude Stigia.

Un tempo nell’arco

di una notte come questa

avrei cantato e danzato,

come uno sciamano,

ingannando il tempo,

la storia mitica

di ogni costellazione.

E radunato sulle sponde

un’intera nazione di sogni.

Oggi invece resto fermo

sul bagnasciuga:

affondo, sprofondo nella sabbia,

come una scoria

scaraventata a riva dalla tempesta.

Senza futuro e senza memoria.

E’ tramontata la stella polare.

Non provo più rabbia.

Questa notte dormo qui.

Accucciato. Solo.

(Tanto non saprei dove andare).

 

 

 

 

L’esercizio quotidiano della parola

 

L’esercizio quotidiano della parola,

l’assidua ricerca dell’espressione esatta,

misurata, calzante,

consente talvolta uno scarto lieve,

poco evidente ma sufficiente

a salvarti il cuore dall’infarto:

giusto il tempo di sollevare

un sopracciglio

per riflettere e scovare

la parola giusta,

capace d’esprimere il dolore

che ti sta per afferrare

e stringere il petto

in una morsa devastante…

ed ecco che la presa

si allenta un poco,

solo un poco,

quel tanto che basta

a salvarti il culo

e a tenerti in gioco.

Pregio e difetto

del quotidiano esercizio

della parola.

 

 

 

 

Last (and least) blues

 

Ora che non ci sei più,

anche se mi resti accanto,

confondo viltà e virtù,

e sorrido del mio pianto

canticchiando un vecchio blues…

 

Sì, sì, canticchio questo vecchio blues

scritto col sangue cinquant’anni fa

da uno che aveva nel DNA

lo spietato coraggio della pietà:

It was only a flirt –you sure did know-

someone was hart –long time ago…

 

Last blues, last blues, last blues…

“Last, but not least”, rifletto,

e rifletto sul non detto…

ma poi non serve a niente…

(specchio riflesso non mente)

ma poi non serve a niente…

 

E di nuovo sprofondo nel blues,

e si libra il mio cuore affranto

liberandosi nel pianto,

liberandosi dal pianto…

Last blues, last blues, last blues…

 

“Da solo volo più in alto”,

ho pensato, spiccando il salto…

Ma poi, piombando nel blu(es),

mi rendo conto dell’affronto:

sei stata tu, proprio tu, mia bella,

tu che mi stavi accanto,

a darmi la spintarella

che mi precipita di colpo

in questo pozzo senza fondo…

 

E allora io canticchio un blues,

e mi confondo,

e affondo fino in fondo

in quel pozzo senza fondo

in cui getto senza sforzo

il mio corpo a corpo morto

canticchiando questo blues…

Last blues, last blues, last blues…

 

E viceversa

(Flottaggio e canottaggio)

 

A lungo sospeso

in brodo di cultura

in carne ed essenziale ossatura,

rappreso e represso,

incompreso da me stesso,

ebbro del vacuo girotondo

di un sé profondo

senza ma e senza se,

ma con molti non so che,

vivo nel crogiolo incandescente

delle possibilità

in cui il tutto in potenza

si confonde con l’assenza di tutto:

e il niente espresso

coincide col tutto che sarà

e la smania (manìa travestita),

l’eccitazione del fare

che s’impossessa di me

illanguidisce in un sorso di caffè

e il ballo dell’orso

è una sequela di finte

che finisce in nulla:

la bara coincide con la culla.

E viceversa. E nulla vacilla

nella mia mente tersa

che conversa col cosmo

e attraversa l’infinito,

e attraversa vite infinite,

senza versare una stilla di sangue

né sporcarsi le mani,

e ripete continuamente:

domani, domani, domani…

Domani spacco il mondo,

domani trasformo questo

molle estenuante girotondo

in una danza folle,

e la pura contemplazione codarda

in una sporca azione bastarda.

Illusione beffarda.

Tra le due facce della stessa medaglia

non c’è distinzione:

l’azione più decisa

germoglia come un fiore

nella palude della più strenua

contemplazione.

E viceversa: l’agire più vero

è pensiero distillato.

Questo il significato

di questa mia matura adolescenza.

E’ questa l’essenza, la cifra,

l’assenza-presenza,

l’alfa e l’omega, il tutto

e il niente che mi frega.

Il con e il senza.

 

 

 

2- Aforismi ed epigrammi

sulla poesia

 

 

 

 

La poesia si aggrappa

al silenzio

come l’agave

ad una rupe nel deserto.

 

 

 

 

 

La poesia gioca col silenzio

la sua danza di morte

e il suo gioco elementare

di vuoto e di tempo.

 

 

 

 

 

La poesia

è un falso movimento:

una finta, non una fitta,

del cuore.

 

La poesia è contraddizione:

parola che ci lascia

senza parole,

suono che vorrebbe

raccontare il silenzio.

 

 

 

 

 

La poesia è il vento

che scava nella roccia

la rosa del deserto.

 

 

 

 

 

(Aforisma criptico)

 

La poesia non sei tu.

La poesia eri tu.

 

 

La poesia è una canzone

che ieri cantavi

e che oggi hai composto.

 

 

 

 

 

La poesia si annida

nell’occhio del ciclone:

il silenzio che si apre

nel centro esatto

di un turbinìo di parole.

 

 

 

 

 

La poesia quando c’è

non ama cerimonie:

per questo fugge i premi

e i poeti laureati.

 

 

Il poeta è un uomo pratico…di sogni.

 

 

 

 

 

Il poeta è uno che cerca di tradurre i sogni in segni.

 

 

 

 

 

Il poeta è uno che racconta cose che non conosce.

 

 

 

 

 

 

Molti credono, ingannandosi,

che la poesia sia fatta di parole,

e che per scrivere poesie

occorra mettere una parola

dopo l’altra.

Tutto sbagliato: occorre togliere,

non mettere.

E meglio ancora tacere.

 

 

 

 

 

Le poesie migliori di Rimbaud

furono quelle che non scrisse

dopo l’amore feroce di Verlaine

quando, illuminato, rinunciò

all’inferno della poesia

per l’inferno della vita.

Ancora meglio

quelle che non scrisse

dopo la sua morte.

 

Tutte comunque

ambientate all’inferno.

Io scrivo esattamente come Rimbaud,

e come Saffo, e come Tito Orazio Flacco:

una prova lampante di ciò consiste nel fatto

che tutte le infinite poesie

non scritte da Orazio, Saffo, Rimbaud

coincidono esattamente, alla lettera,

con tutte quelle che anch’io non ho scritto.

 

 

 

 

 

Aristotele docet

 

La poesia è come la Nettezza Urbana:

serve a spazzare via i rifiuti.

per questo i poeti scrivono soltanto

di amori perduti.

 

 

 

 

 

La poesia è come una donna:

quando dice una  cosa

di solito ne intende un’altra.

 

 

 

 

 

Coscienza di sé.

 

Citazioni? Io sono un maestro

di citazioni: figuratevi

che cito me stesso

da quando sono nato.

 

 

 

 

 

La poesia è come una donna:

se la insegui, se ti interessi a lei,

se la corteggi insistentemente,

lei ti considera un idiota;

se la ignori, o la tratti con sufficienza,

facilmente ti si concede.

Ma non illuderti: l’indomani tutto

è di nuovo azzerato.

E il gioco comincia da capo.

 

 

 

 

 

Spesso le mie poesie assomigliano

alle donne che ho incontrato:

più sono belle, patinate, levigate,

più nascondono tarli sotto vuoto spinto.

Certe bruttine stagionate, invece,

all’apparenza scipite o sgarrupate,

nascondono il fuoco

dietro un aspetto sincopato.

 

 

 

 

 

Spesso troppi compromessi

mi hanno messo

in croce.

Così metto le redini

alla fantasia

perché galoppi

più veloce.

 

E la mia voce dice cose

al di là delle parole.

 

 

 

 

 

La qualità maggiore della poesia

consiste nella brevità.

Fa perdere meno tempo.

In ciò è superata solo dall’aforisma.

 

 

 

 

Una poesia lunga è un controsenso.

E’ come un amplesso che duri ore e ore:

ad un certo punto, soprappensiero,

accendi la televisione.