Il taccuino rovesciato
1- Altri fiori del silenzio
(e qualche canzonetta scanzonata)
Introduction to the blues
Rileggere oggi parole dette
e non dette,
come se fossi sempre stata tu
l’ombra che affiora
dietro le tende
l’ombra che attende e mi ascolta
e mi sorprende ancora una volta,
nell’ora in cui la mia voce
risuona lenta, lontana e sorda
e il mio canto scordato si scorda...
Ripetere oggi ogni parola detta
e non detta,
come se fossi tu, sempre tu,
l’ombra che mi aspetta
dall’altra parte,
l’onda lenta in cui affonda
l’eco della mia voce,
come nella risacca,
e si perde e si ritrova:
parole vecchie su musica nuova...
Riscrivere oggi parole già dette,
imprecise, imperfette,
rose recise in inverno,
per mera impazienza,
confuso il mattino con la sera.
Vano esercizio di sopravvivenza.
La poesia si nasconde.
Dicono che la poesia si nasconda
nelle piccole cose:
nelle ombre azzurrine,
nella fessura verde di muschio
che si apre nel muro,
in un repentino barbaglio di sole
sulle trine delle tende bianche,
nel silenzio dei sassi arsi d’estate,
nella biglia di vetro colorato
di quando eri bambino.
Altri hanno insinuato insinuarsi
nel gioco delle parole:
quelle che rimbalzano sotto i palati
in distici raffinati,
con piccole, gorgoglianti
cascate di suoni;
o rifluiscono come onde lunghe
in laici golfi mistici.
Altri ancora sostengono
che si nasconda nel fuoco
che arde in petto e trasforma
il cuore in un crogiolo
dove forgiare lame d’argento,
collane d’oro e soldatini di piombo.
Sì. Dicono che si nasconda. La poesia.
E fa bene, di questi tempi.
E io non sono certo
tipo da fare la spia.
5 luglio 2004
Ombre di amici di plastica
mimano una grottesca
danza orgiastica
sulla tomba del mio cuore:
dissacrano il luogo,
barbari ubriachi di vacuità,
non risparmiano nulla:
né la lapide, né il cumulo di terra,
né il fiore sulla pietra,
né l’anfora delle libagioni
che qualcuno tocca, afferra
e porta alla bocca sacrilega…
Legioni di demoni inermi
covano vendetta
nella cavità del mio cuore
incapaci di accettare la disfatta…
vanità di un amore.
Domani della tomba non resterà traccia.
Né ombra della mia faccia
divorata dai vermi.
Vano il sarcasmo.
Vano anche questo patetico
ultimo romantico spasimo
- vivo rigurgito di lettera morta.
Vani la rima e il chiasmo.
Tu non mi ami più.
Nulla sarà più come prima.
Il mio cuore giace
sotto due metri di virtù.
Assenzio
L’assenzio della tua assenza
stilla
acide gocce
nelle cavità del mio cuore
da una scheggia conficcata
altrove.
Ogni goccia che cade
riecheggia
nelle vacuità del mio cuore
e corrode
i petali e le foglie
dei fiori del silenzio.
Ricordo quando alle soglie
e alle finestre
fiorivano germogli
bagnati dalla rugiada
della tua presenza.
Bei tempi quelli!
C’era musica che pareva nuova,
allora, nell’aria.
Niente a che vedere
con gli esangui riecheggiamenti,
strenui rifacimenti,
vacui arrangiamenti
che risuonano ora.
Rigurgiti estremi del silenzio,
per un banale finale “in morendo”.
Barchette di carta
Ho messo poche parole in fila.
Spesso le stesse. Spossate. Spaesate.
E qualche sparuta rima.
Certe parole ripetute: solo suoni,
ritornelli. Giochi di bambini.
A volte, forse, banali esorcismi:
versi frusti, scarsi,
sparsi qua e là in vena di catarsi.
Altre volte chiasmi
e sapidi, rapidi, ripidi sarcasmi:
inutili spasimi della mia ombra
aggrappata romanticamente
alla carcassa di un corpo disteso
sopra un tavolo d’obitorio
con un cartellino appeso
ad un piede petrarchesco
col mio nome su -o pro- scritto.
Solo questo passa il convento
della mia prematura clausura
- o sepoltura, che fa lo stesso.
E l’arsura di un cuore oceanico
che fa barchette di carta
nella fontana di un chiostro.
Nel giardino del re
Nelle notti senza luna scavalco
le mura di un giardino abbandonato.
Dicono fosse abitato
da un re, un tempo.
Ora è soltanto un ammasso
di sterpi e di sassi.
Io scavalco le mura ogni notte,
e coltivo come un ladro
un angolo di quel giardino:
semino con pazienza, a mani nude,
quadrifogli squadernati,
e altre simili primizie dozzinali,
e li bagno con gocce
di onirici distillati.
Nonostante tutto, infatti,
i sogni fermentano ancora
nel fondo delle mie tasche,
specie quando passeggio
per strade sperdute e assolate,
desolate, in cerca di niente.
E che sorpresa (e che spasso)
quando stanotte mi sono avventurato
in un angolo ancora inesplorato.
E in un labirinto di rovi
il prodigio di una scoperta:
una statua di gesso grigio
che portava una corona sulla testa
e sul volto stampata la mia effigie.
Inappartenenza
L’inappartenenza
di tutte queste figurine scialbe
che danzano attorno alla mia testa,
come falene
attorno al mio cadavere in fiamme,
no, non mi spaventa:
fotografie
di un vecchio album di famiglia
che qualcuno, per sbaglio,
ha scambiato col mio
e lasciato sul comò
in una stanza d’albergo.
Ecco. Albergo. Albeggia
e io albergo fuori di me.
Vago fuori di me.
L’unica coerenza che mi concedo,
come un inutile lusso,
è la contraddizione.
Vago. Calpesto la mia ombra,
in una notte fitta e senza stelle.
Affondo nella mia ombra,
e nell’ombra mi confondo,
senza più stelle fisse in cielo
né fissa dimora sulla terra.
L’ombra mi afferra.
Abito la mia ombra
come una casa senza ombre
e senza giardino. Un lungo sogno
senza requie. E senza la carezza
di una palpebra che passi
su gli occhi il suo panno
di effimero oblìo.
Tu non sei qui.
Nemmeno quando ci sei.
E anch’io, forse, sono assente.
E di certo sono troppo vecchio
per giocare con le figurine.
Queste figurine scialbe
che per lo più, credo,
si credono gente.
Le rose del deserto..
Le rose del deserto
Mio giardino
Non cadono
Sono poche e dure
E hanno forme strane
Inconsuete
Rose clandestine
Travestite
Rose in forma di moke
E al posto delle spine
gocce di caffè che stilla
Sangue nero che mi rode
Corrode
Non il cuore,
Ma la bocca
Dello stomaco
Le ferite
In forma di gastrite:
Le stigmate da te lasciate
Nelle mie innumerevoli vite.
Parole
La parola fugge. Sfugge.
Cade nel vuoto di un’altra parola.
Ricade.
Risuona.
Ci sono parole cave
ed altre piene, o piane, convesse,
ri-colme di promesse,
o sospese, incerte,
riflesse,
refrattarie ad essere rinchiuse
in un cerchio di gesso,
alate come l’anima di Puskin
spiccata
sugli abissi del Caucaso
e al tempo stesso rinchiusa,
richiusa su se stessa.
Ci sono parole anima.
E parole corpo.
E parole inutili ma rassicuranti,
come queste.
Canzonetta blues
Quella porta chiusa tanto tempo fa…
Il suono di quella porta chiusa
che ancora riecheggia qui,
nella mia testa…
La testa tra le mani…
Giorni vuoti a perdere,
senza domani:
sillabe che cadono al suolo
senza fare rumore,
solo un tonfo sordo
riecheggia qui,
nella mia testa…
Il ricordo di quella porta
che si chiude alle spalle…
Alle tue spalle,
sopra la mia testa,
una nuvola che non passa…
Un’ombra che resta
impigliata tra i rami
di un giorno vuoto a perdere,
senza domani…
E l’economia bastarda di una rima
che prima ti scava la fossa
e poi rompe l’urna:
e la tragedia se ne va in burla.
Armi e bagagli
Così ho fatto armi e bagagli.
Ma le armi erano spuntate
e i bagagli legati con lo spago:
c’era un sarcasmo di maniera
e fuori corso, c’erano 7777 libri
letti e dimenticati,
c’era l’eclissi di una verga solare
in una sera di nebbia e di pioggia,
e una scheggia di ferro
con inciso il mio nome
in caratteri ignoti.
E poi non avevo un posto
dove andare,
né un treno, o una nave
da prendere.
Così mi sono accampato,
con le mie armi spuntate
e i miei bagagli legati con lo spago,
in un ripostiglio
pieno di luci e di ombre,
di paura e di speranza.
Alla stazione di partenza.
E spio dal buco della serratura
l’andirivieni della tua assenza.
Pane azzimo
Ho rinunciato agli stillicidi letterari
del mo povero cuore.
Mi sono preso una vacanza
da me, dal mio inquieto umore
di poeta spaesato
e scrivo amare canzonette
d’amore in rime baciate
dalla cattiva sorte.
Parlo solo di porte chiuse,
giardini incantati e ombre danzanti.
Le api ronzanti sciamano altrove.
Domattina a colazione niente miele:
caffè nero bollente
e pane azzimo.
Come sputtanarsi le interiora
in un attimo.
Per aspera ad astera
I - Sfere celesti.
Ti ho amato così tanto
da cancellarti dai miei giorni.
Anche adesso che ti parlo,
e parlo di te,
tu hai perduto forme e contorni.
La curva ellenica dei tuoi fianchi,
troppo levigata dai miei sguardi,
ha perduto ogni realistica parvenza,
trasfigurata in astratta, astrale perfezione
di sfera celeste o di luna piena.
Così il tuo volto e il tuo ventre.
Il tuo corpo
un’interminabile teoria
di sfere concentriche:
una visione cosmica e armonica
degna di un epigono di Pitagora.
Ecco, così la tua assenza,
ora, ho mutato
in sublime essenza.
Ma alla contemplazione
dell’essere
ho preferito sempre
la più prosaica soddisfazione
dell’averti.
E tutto questo è solo poetica,
patetica masturbazione.
Per aspera ad astera
II - Black Hole
Il collasso siderale
che si è aperto nel mio petto
un milione d’anni fa
quando ieri tu mi hai detto “Adieu”
senza muoverti d’un passo
come un clone di Estragone
Ed io ti ho risposto “Adieu anch’io”
senza muovermi di un passo
come un vago Vladimiro…
E adesso, dopo un rapido giro di stelle
avvitate alla volta celeste, a tempo di valzer,
con un Black-hole-and-Decker,
provo sulla mia pelle l’inevitabile
sconquasso di questa attrazione
fatale, gravitazionale
che precipita ogni mio atomo
nell’abisso oscuro della tua mancanza.
Ma il suono provocato da questo cataclisma
non somiglia all’astrale armonia
udita da Pitagora in una notte etnea,
ma piuttosto al risucchio a spirale
di un lavandino sturato.
E in tal gorgo affonda e svanisce
un universo:
i fiori di una fanciulla mai deflorata,
le barchette di carta assorbente
che un Amleto distratto ha varato
nella stiva di un viaggio sottovalutato,
tutti i volumi tralasciati a Wittemberg
e la diafana vacua armatura
che si aggira per l’Europa
in cerca della sua ombra,
e poi gli amici di pezza,
e le ombre dietro gli arazzi,
e i nostri rari guizzi di ragazzi avvizziti,
e gli sprazzi di sole nella nebbia di Elsinore,
e i guazzi e il colore cangiante
nella notte della ragione,
e questo mondo pazzo
dove tutto ha una ragione
tranne la ragione stessa.
E se parliamo
è solo perché siamo
senza parole
Per aspera ad astera
III – S. Lorenzo
Lo stillicidio di stelle
che stanotte dissangua il cielo
mi lascia indifferente.
Non odo le sinfonie seriali
delle sfere siderali,
né il murmure inquieto
del mare.
Le mie membra giacciono
inermi.
Forse sono già morto,
e mi hanno lasciato così,
impietosamente
buttato sulla battigia.
E questo non è il mare,
ma la palude Stigia.
Un tempo nell’arco
di una notte come questa
avrei cantato e danzato,
come uno sciamano,
ingannando il tempo,
la storia mitica
di ogni costellazione.
E radunato sulle sponde
un’intera nazione di sogni.
Oggi invece resto fermo
sul bagnasciuga:
affondo, sprofondo nella sabbia,
come una scoria
scaraventata a riva dalla tempesta.
Senza futuro e senza memoria.
E’ tramontata la stella polare.
Non provo più rabbia.
Questa notte dormo qui.
Accucciato. Solo.
(Tanto non saprei dove andare).
L’esercizio quotidiano della parola
L’esercizio quotidiano della parola,
l’assidua ricerca dell’espressione esatta,
misurata, calzante,
consente talvolta uno scarto lieve,
poco evidente ma sufficiente
a salvarti il cuore dall’infarto:
giusto il tempo di sollevare
un sopracciglio
per riflettere e scovare
la parola giusta,
capace d’esprimere il dolore
che ti sta per afferrare
e stringere il petto
in una morsa devastante…
ed ecco che la presa
si allenta un poco,
solo un poco,
quel tanto che basta
a salvarti il culo
e a tenerti in gioco.
Pregio e difetto
del quotidiano esercizio
della parola.
Last (and least) blues
Ora che non ci sei più,
anche se mi resti accanto,
confondo viltà e virtù,
e sorrido del mio pianto
canticchiando un vecchio blues…
Sì, sì, canticchio questo vecchio blues
scritto col sangue cinquant’anni fa
da uno che aveva nel DNA
lo spietato coraggio della pietà:
It was only a flirt –you sure did know-
someone was hart –long time ago…
Last blues, last blues, last blues…
“Last, but not least”, rifletto,
e rifletto sul non detto…
ma poi non serve a niente…
(specchio riflesso non mente)
ma poi non serve a niente…
E di nuovo sprofondo nel blues,
e si libra il mio cuore affranto
liberandosi nel pianto,
liberandosi dal pianto…
Last blues, last blues, last blues…
“Da solo volo più in alto”,
ho pensato, spiccando il salto…
Ma poi, piombando nel blu(es),
mi rendo conto dell’affronto:
sei stata tu, proprio tu, mia bella,
tu che mi stavi accanto,
a darmi la spintarella
che mi precipita di colpo
in questo pozzo senza fondo…
E allora io canticchio un blues,
e mi confondo,
e affondo fino in fondo
in quel pozzo senza fondo
in cui getto senza sforzo
il mio corpo a corpo morto
canticchiando questo blues…
Last blues, last blues, last blues…
E viceversa
(Flottaggio e canottaggio)
A lungo sospeso
in brodo di cultura
in carne ed essenziale ossatura,
rappreso e represso,
incompreso da me stesso,
ebbro del vacuo girotondo
di un sé profondo
senza ma e senza se,
ma con molti non so che,
vivo nel crogiolo incandescente
delle possibilità
in cui il tutto in potenza
si confonde con l’assenza di tutto:
e il niente espresso
coincide col tutto che sarà
e la smania (manìa travestita),
l’eccitazione del fare
che s’impossessa di me
illanguidisce in un sorso di caffè
e il ballo dell’orso
è una sequela di finte
che finisce in nulla:
la bara coincide con la culla.
E viceversa. E nulla vacilla
nella mia mente tersa
che conversa col cosmo
e attraversa l’infinito,
e attraversa vite infinite,
senza versare una stilla di sangue
né sporcarsi le mani,
e ripete continuamente:
domani, domani, domani…
Domani spacco il mondo,
domani trasformo questo
molle estenuante girotondo
in una danza folle,
e la pura contemplazione codarda
in una sporca azione bastarda.
Illusione beffarda.
Tra le due facce della stessa medaglia
non c’è distinzione:
l’azione più decisa
germoglia come un fiore
nella palude della più strenua
contemplazione.
E viceversa: l’agire più vero
è pensiero distillato.
Questo il significato
di questa mia matura adolescenza.
E’ questa l’essenza, la cifra,
l’assenza-presenza,
l’alfa e l’omega, il tutto
e il niente che mi frega.
Il con e il senza.
2- Aforismi ed epigrammi
sulla poesia
La poesia si aggrappa
al silenzio
come l’agave
ad una rupe nel deserto.
La poesia gioca col silenzio
la sua danza di morte
e il suo gioco elementare
di vuoto e di tempo.
La poesia
è un falso movimento:
una finta, non una fitta,
del cuore.
La poesia è contraddizione:
parola che ci lascia
senza parole,
suono che vorrebbe
raccontare il silenzio.
La poesia è il vento
che scava nella roccia
la rosa del deserto.
(Aforisma criptico)
La poesia non sei tu.
La poesia eri tu.
La poesia è una canzone
che ieri cantavi
e che oggi hai composto.
La poesia si annida
nell’occhio del ciclone:
il silenzio che si apre
nel centro esatto
di un turbinìo di parole.
La poesia quando c’è
non ama cerimonie:
per questo fugge i premi
e i poeti laureati.
Il poeta è un uomo pratico…di sogni.
Il poeta è uno che cerca di tradurre i sogni in segni.
Il poeta è uno che racconta cose che non conosce.
Molti credono, ingannandosi,
che la poesia sia fatta di parole,
e che per scrivere poesie
occorra mettere una parola
dopo l’altra.
Tutto sbagliato: occorre togliere,
non mettere.
E meglio ancora tacere.
Le poesie migliori di Rimbaud
furono quelle che non scrisse
dopo l’amore feroce di Verlaine
quando, illuminato, rinunciò
all’inferno della poesia
per l’inferno della vita.
Ancora meglio
quelle che non scrisse
dopo la sua morte.
Tutte comunque
ambientate all’inferno.
Io scrivo esattamente come Rimbaud,
e come Saffo, e come Tito Orazio Flacco:
una prova lampante di ciò consiste nel fatto
che tutte le infinite poesie
non scritte da Orazio, Saffo, Rimbaud
coincidono esattamente, alla lettera,
con tutte quelle che anch’io non ho scritto.
Aristotele docet
La poesia è come la Nettezza Urbana:
serve a spazzare via i rifiuti.
per questo i poeti scrivono soltanto
di amori perduti.
La poesia è come una donna:
quando dice una cosa
di solito ne intende un’altra.
Coscienza di sé.
Citazioni? Io sono un maestro
di citazioni: figuratevi
che cito me stesso
da quando sono nato.
La poesia è come una donna:
se la insegui, se ti interessi a lei,
se la corteggi insistentemente,
lei ti considera un idiota;
se la ignori, o la tratti con sufficienza,
facilmente ti si concede.
Ma non illuderti: l’indomani tutto
è di nuovo azzerato.
E il gioco comincia da capo.
Spesso le mie poesie assomigliano
alle donne che ho incontrato:
più sono belle, patinate, levigate,
più nascondono tarli sotto vuoto spinto.
Certe bruttine stagionate, invece,
all’apparenza scipite o sgarrupate,
nascondono il fuoco
dietro un aspetto sincopato.
Spesso troppi compromessi
mi hanno messo
in croce.
Così metto le redini
alla fantasia
perché galoppi
più veloce.
E la mia voce dice cose
al di là delle parole.
La qualità maggiore della poesia
consiste nella brevità.
Fa perdere meno tempo.
In ciò è superata solo dall’aforisma.
Una poesia lunga è un controsenso.
E’ come un amplesso che duri ore e ore:
ad un certo punto, soprappensiero,
accendi la televisione.