Tu affidati al vento
Non credo che la poesia salverà il mondo.
Ma forse salverà me.
(È già qualcosa, infondo).
Incipit
Questa mattina, dopo lungo sonno, un verso mi attendeva sull’orlo del risveglio: “Tu affidati al vento”, risuonava nella mia testa vuota, pesante, opaca.
Uno squillo di tromba, una chiamata alle armi, dopo anni di cielo di piombo, io piccolo soldatino di stagno, dimenticato ai bordi dell’Impero, a far la guardia al Deserto dei Tartari, senza ordini precisi, in attesa senza attendenti…
E allora, ecco, chiamiamo a raccolta gli ultimi sparuti compagni, fogliettini sparsi, appunti sui biglietti del tram, messaggini rimasti in memoria, versi sfuggiti qua e là nelle pieghe di una vita di prosa rampante. Cominciando da quelli raccolti negli anni in un angolo del mio portafoglio… E poi vediamo dove ci porta il vento…
Tu affidati al vento
Che ti apre tutte le porte
Socchiuse, mal chiuse, richiuse
Con troppa fretta e cattiva coscienza.
Affidati al vento
Che accarezza le ferite
Che attraversano la friabile roccia
Del cuore
Come vena inaridita
Di acqua sorgente
E di argento vivo.
Affidati al vento
E sentiti vivo.
E spera che alla fine
Il paracadute si apra.
(Diversamente
Affidati alla terra
Che si apra e richiuda,
Come un sorriso)
I versi nel portafoglio
Coltivo la tua assenza
Come rosa del deserto.
Di questo sono esperto
E di altri simili
Inutili prodigi
Come il naufragio
Sulla terraferma
E il vaniloquio
Nella valle dell’Eco.
E se spreco così il mio tempo
È perché ne ho così poco.
Fiorirà un giorno
La rosa del deserto.
Lo so. Ne sono certo.
Io sono qui che aspetto
Arroccato
In un avamposto dimenticato
Della Fortezza Bastiani
E inganno l’attesa
Lanciando una voce,
Di tanto in tanto,
Nella valle dell’eco
All’ultimo dei Tartari
Che se ne sta arroccato
Dall’altra parte,
Se non m’inganno,
In un avamposto dimenticato,
E mi risponde…
Strappate le mie tele
Come sudari
Lasciate appese
Le braccia protese
Calate le mie tele
Come sipari.
Nulla sarà come prima:
Il canto, il gesto, la rima.
Sono il segno, l’impronta:
Quello che resta.
L’orgoglio e l’onta.
E vele fatte a pezzi
E prese in pegno
Dalla tempesta.
Sull’orlo
Ancora stilla dal mio petto
Un liquido nero, a piccoli fiotti.
Non sangue, no. Gocce d’inchiostro,
Nettare di China che sporca le dita
E riga il candore perduto
Delle mie notti in salita.
Il fiato è corto. Il tempo morto.
Nessuno se n’è accorto.
Nemmeno io, assorto come sono
Sull’orlo di me.
E se adesso l’ho detto,
è solo perché ero sovrappensiero.
A corto di parole, la musica del vuoto
Dilaga. E lo struggimento
Pianta il suo rostro
Nel cuore.
Si sa, scrivo solo quello che non so.
E se scrivo molto è perché non so quasi nulla.
E ascolto con stupore la mia voce che mi culla
Con parole che attraversano le cavità del cuore
E riecheggiano a lungo.
Solo la musica un poco mi appartiene,
E il respiro, e il gioco estenuato della rima
Che appena, forse, sfiora il senso,
Come il palpito di una farfalla
O il fremito di un petalo di loto
Che resta a galla sull’ignoto
Della palude dello Stige,
Mentre la mia ombra spicca il volo
Dall’effigie di me, si libra,
Liberandosi di me.
Poi scivola sulle onde
E a queste si confonde.
Hamletness
Living in a damned mark
Named Denmark
And marked
By darkness and bloodness
You sure became
A kind of Hamlet
Tetralogia in prosa spicciola (e un piccolo resto)
Primo: imparare a respirare. Seguire il ritmo del mio respiro. Se respiro bene, a fondo, e poi trattengo il respiro, lo so, l’ho sognato tante volte, e nei sogni a poco a poco l’ho imparato, posso spiccare il volo, lasciare a terra la mia ombra, e controllando il respiro controllare l’altezza del volo, la direzione.
Secondo: non volare troppo in alto. Ricordati di quando eri Icaro, ricorda come è andata a finire. E non dico di volare basso, ma solo non troppo alto, che farsi prendere dalla vertigine è un attimo.
Terzo: mangiare, bere, dormire.
Quarto e ultimo: amare.
Quinto (non datur): essere amati
Hamletness, again
A Wittenberg ho conosciuto i sofismi
Del Socrate di Aristofane.
Ad Elsinore il sangue di una Sofonisba
Rivista e (s)corretta.
Per questo alla fine mi sono rifugiato
In Teatro, tra tende e vecchi merletti,
Dove il sangue è finto, si parla molto di nulla,
E il fondo della tragedia è dipinto.
Sintesi perfetta, inversione sublime
(della finzione): la tomba si fa culla.
E inaspettatamente
L’amico Pablo
Mi donò di nuovo
In un colpo solo
Il teatro e la poesia
E la mia voce rotta
Mentre Camille Claudel
Inseguiva Indiana Jones
In un gioco a perdifiato
Tra guaiti e soffi
E fuori lo stillicidio
Dei miei giorni d’estate
Non faceva rumore
In un delirio d’umore
E di parole declamate
E venne il giorno del disincanto
E l’amore mutò forma e colore
Si fece fiume sotterraneo
In un paesaggio di vetro.
La luce che ride
Nei tuoi occhi
Apre finestre inattese
Nelle stanze buie.
E ti guardo passare
Come l’ombra del vento.
E si addolcisce
Il disincanto
sms
I silenzi cadono
Sul fondo del lago
Come pietre del deserto.
Desiderio è lontano,
Nuvola che passa.
Una piccola rosa occhieggia
Tra le mura del mio giardino.
Nel mio giardino
C’è una rosa sola.
E non è nemmeno mia.
Me l’ha portata il vento,
E il vento me la può portare via.
E vano è il ricorso
alla poesia.
Epilogo (draft - sms mai inviato)
E così alla fine
non ti rimpiango nemmeno.
Ti ho pianto
e ti compiango.
Il fiume si è fatto pietraia.
La rosa del deserto
è solo un sasso levigato.
Io sono la nuvola,
il vento,
la schiuma dell'onda,
un tronco alla deriva
che non affonda.