Le maschere di Moscarda
Liberamente tratto dal romanzo
Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello
Le maschere di Moscarda ha debuttato in teatro a Milano, al Teatro Asteria, nell’aprile del 2004, per la regia dell’autore stesso (anche interprete, nel ruolo dell’Alter Ego) con Riccardo Fritz Piricò nel ruolo di Gengè e Daniela Frigione in quello di Dida. Musiche originali eseguite dal vivo di Fabrizio Banchellini e Pierluigi Bentivegna. Luci, scene e proiezioni immagini di Valentina Carrera (anche aiuto-regista) e Paolo Rassatti. Produzione Apollo e Dioniso.
Dramatis personae.
Gengè (Vitangelo Moscarda)
Dida (moglie di Moscarda)
Alter Ego
Elementi di scena.
Un grande specchio, sul palco. Una grande sedia, di quelle da regista cinematografico, in platea, con scritto sullo schienale “Alter Ego” anziché “regista”.
I.
Sul fondo della scena, dietro un velario, Gengè davanti ad un grande specchio (meglio se “immaginario”: una grande cornice vuota) si tocca il naso. Dida si fa le unghie.
DIDA: Che fai?
GENGè: Niente. mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.
DIDA: (sorridendo) Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
GENGè: (come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda) Mi pende? A me? Il naso?
DIDA: (placidamente) Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra. Ma di’ un po’: non penserai d’essere in tutto senza difetti, non è vero?
GENGè: Be’ no… ma…
DIDA: Toglitelo dalla testa, perché non solo il naso ti pende verso destra, ma …
GENGè: Che altro?!
DIDA: Eh, altro! altro! Le tue sopracciglia paiono sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le tue orecchie sono attaccate male, una piú sporgente dell’altra; e poi altri difetti...
GENGè: Ancora?
DIDA: Eh sí, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino piú arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino.
Gengè si precipita allo specchio per verificare…
DIDA: Ad ogni buon conto non c’è motivo che tu ti affligga, poiché in fondo, tutto sommato, resti sempre un bell’uomo.
GENGè: (velenoso) Grazie! Grazie tante… (avanza verso il proscenio, scostando il velario, rivolgendosi al pubblico) Avevo ventotto anni allora e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno decente, come tutte le altre parti della mia persona. Ma dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. Ma in effetti io allora non diedi alcun peso a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria importanza al fatto che tant’anni ero vissuto con quel naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver conto che li avevo difettosi.
ALTER EGO: (seduto in platea) Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito.
GENGè: Ecco, già - le mogli, non lo nego. Ma anch’io a quei tempi non mancavo di sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni che mi scavavano dentro e mi bucavano lo spirito, come la tana di una talpa…
ALTER EGO: Si vede che avevate molto tempo da perdere.
GENGè: No, no... Per la disposizione d’animo in cui mi trovavo... Ma del resto sí, anche per l’ozio, non lo nego. Ero ricco allora, e altri badavano ai miei affari per me dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, ecco, questo sí, giovanissimo. E non già ch’io mi opponessi a prendere la via per cui mio padre m’incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci camminavo. Mi fermavo a ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre piú da vicino a girare attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi meravigliavo assai che gli altri potessero passarmi avanti senza fare caso a quel sassolino che per me intanto aveva assunto le proporzioni d’una montagna insormontabile, d’un intero mondo… Ero rimasto cosí, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso. Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella riflessione che, possibile?, non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie che piú intimamente m’appartenevano: il naso le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame. Cominciò da questo il mio male.
II
La scena iniziale si ripete, identica, ma come lontana, filtrata dalla memoria (voci registrate, o video proiettato sul velario, o dialogo tra Gengè in proscenio e Dida dietro il velario, con musica di sottofondo)
DIDA: Che fai?
GENGè: Niente. mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.
DIDA: (sorridendo) Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
GENGè: (come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda) Mi pende? A me? Il naso?
DIDA: (placidamente) Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra. Ma di’ un po’: non penserai d’essere in tutto senza difetti, non è vero?
GENGè: Be’ no… ma…
DIDA: Toglitelo dalla testa, perché non solo il naso ti pende verso destra, ma …
GENGè: Che altro?!
DIDA: Eh, altro! altro! Le tue sopracciglia paiono sugli occhi due accenti circonflessi, le tue orecchie sono attaccate male, una piú sporgente dell’altra; e poi altri difetti...
GENGè: Ancora?
DIDA: Eh sí, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino piú arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino… Ad ogni buon conto non c’è motivo che tu ti affligga, poiché in fondo, tutto sommato, resti sempre un bell’uomo.
GENGè: (velenoso) Grazie! Grazie tante…
ALTER EGO: (nel frattempo si è avvicinato e lo interrompe) E il vostro naso?
GENGè: Già, il mio naso… Subito mi figurai che tutti, avendone fatta mia moglie la scoperta, dovessero accorgersi di quei miei difetti corporali e altro non notare in me.
ALTER EGO: (salendo sul palco e avvicinandosi molto) Scusami, Moscarda, ma volevo parlarti di un certo affaruccio che mi sta a cuore. Sai, avrei bisogno di un piccolo prest…
GENGè: (lo interrompe) Che fai? Mi guardi il naso?
ALTER EGO: No, perché?
GENGè: (sorridendo nervosamente) Mi pende verso destra, non vedi?
ALTER EGO: Vedo che oggi hai altro per la testa… (si allontana)
GENGè: (acchiappandolo per un braccio) No, sai, devi scusarmi… sono disposto a trattare con te codest’affare. Ma in questo momento sono distratto…
ALTER EGO: Pensi al tuo naso?
GENGè: Non m’ero mai accorto che mi pendesse verso desta. Me n’ha fatto accorgere, questa mattina, mia moglie.
ALTER EGO: (ironico) Ma davvero?
GENGè: (dopo un istante di sconcerto) E tu lo sai d’avere nel bel mezzo del mento una fossetta che te lo divide in due parti non del tutto eguali: una piú in rilievo di qua, una piú scempia di là… ?
ALTER EGO: Io? Ma che! Ci ho la fossetta, lo so, ma non come tu dici.
GENGè: Aspetta un istante… (estrae uno specchietto di tasca) Tieni, guarda da te!
ALTER EGO: (guardandosi) Be’, sì… in effetti… ma in fin dei conti si tratta di una cosa da nulla… sì, una cosa da nulla… (si allontana continuando a guardarsi)
GENGè: Lo specchio!
ALTER EGO: (si allontana continuando a guardarsi e a toccarsi il mento) A domani, Mostarda…
GENGè: Sono sicuro che, appena rincasato, corre all’armadio per specchiarsi con piú agio e fare conoscenza di quel suo difetto. E non ho il minimo dubbio che, per vendicarsi a sua volta, o per seguitare uno scherzo che gli parve meritasse una larga diffusione in paese, dopo aver domandato a qualche suo amico (come già io a lui) se mai avesse notato quel suo difetto al mento, qualche altro difetto avrà scoperto lui o nella fronte o nella bocca di questo suo amico, il quale, a sua volta... - ma sí! ma sí! - potrei giurare che per parecchi giorni di fila nella nobile città di Richieri, il paese dove allora vivevo, io vidi (se non fu proprio tutta mia immaginazione) un numero considerevole di miei concittadini passare da una vetrina di bottega all’altra e fermarsi davanti a ciascuna a osservarsi chi uno zigomo e chi la coda d’un occhio, chi un lobo d’orecchio e chi una pinna di naso. E ancora dopo una settimana un tale mi s’accostò con aria smarrita per domandarmi se era vero che, ogni qual volta si metteva a parlare… contraeva inavvertitamente la pàlpebra dell’occhio sinistro...
ALTER EGO: (cambiandosi di cappello e irrompendo ancora sulla scena) Dimmi, Mostarda, ma è vero che ogni volta che parlo contraggo inavvertitamente la palpebra sinistra?
GENGè: Sí, caro. (a precipizio) E io, vedi? il naso mi pende verso destra; ma lo so da me; non c’è bisogno che me lo dica tu; e le sopracciglia? ad accento circonflesso! le orecchie, qua, guarda, una piú sporgente dell’altra; e qua, le mani: piatte, eh? e la giuntura storpia di questo mignolo; e le gambe? qua, questa qua, ti pare che sia come quest’altra? no, eh? Ma lo so da me e non c’è bisogno che me lo dica tu. Statti bene (si volta e si allontana)
ALTER EGO: (richiamandolo) Pss! Psss!! (gli fa segno col ditino di avvicinarsi) Scusa, ma dopo di te, tua madre non partorí altri figli?
GENGè: No: né prima né dopo. Figlio unico. Perché?
ALTER EGO: Perché se tua madre avesse partorito un’altra volta, avrebbe avuto di certo un altro maschio.
GENGè: Ah sí? E tu come lo sai?
ALTER EGO: Dicono le donne del popolo che quando un neonato ha i capelli che terminano sulla nuca in un codiniccio come questo che tu hai qui, sarà maschio il nato appresso.
GENGè: Ah, si? E io ci avrei un... come l’hai chiamato
ALTER EGO: Codiniccio, caro, così lo chiamano qui a Richieri.
GENGè: Oh, ma quest’è niente! Me lo posso ritagliare quando voglio.
ALTER EGO: (negando col ditino) Ti resta sempre il segno, caro, anche se te lo fai radere (e se ne va).
GENGè: Desiderai da quel giorno ardentissimamente d’esser solo, almeno per un’ora. Ma veramente, piú che desiderio, era bisogno: necessità acuta urgente smaniosa, che la presenza o la vicinanza di mia moglie esasperava fino alla rabbia.
III.
DIDA: (da dietro il velario, continuando a farsi le unghie, petulante) Hai sentito, Gengè, che ha detto ieri Michelina? Quantorzo ha da parlarti d’urgenza… Guarda, Gengè, se a tenermi cosí la veste mi paiono le gambe… S’è fermata la pèndola, Gengè… Gengè, e la cagnolina non la porti piú fuori? Poi ti sporca i tappeti e la sgridi. Ma dovrà pure, povera bestiolina... dico... non pretenderai che... Non esce da iersera… Non temi, Gengè, che Anna Rosa possa esser malata? Non si fa piú vedere da tre giorni, e l’ultima volta le faceva male la gola… È venuto il signor Firbo, Gengè. Dice che ritornerà piú tardi. Non potresti vederlo fuori? Dio, che noioso!... (si mette a canticchiare qualche vecchia canzone)…
ALTER EGO: (dalla platea) Ma perché non vi chiudevate in camera, magari con due turaccioli negli orecchi?
GENGè: Signore mio, se dite così, vuol dire che non capite come volevo esser solo. Chiudermi potevo soltanto nel mio studio, ma anche lí senza poterci mettere il paletto, per non far nascere tristi sospetti in mia moglie ch’era, non dirò malfidente, ma certo sospettosissima. E se, aprendo l’uscio all’improvviso, m’avesse scoperto? No. E poi, sarebbe stato inutile. Nel mio studio non c’erano specchi. E io avevo bisogno d’uno specchio. D’altra parte, il solo pensiero che mia moglie era in casa bastava a tenermi presente a me stesso, e proprio questo io non volevo. Per voi, esser soli, che vuol dire?
ALTER EGO: Restare in compagnia di me stesso, senza alcun estraneo attorno.
GENGè: No, no! Non si può restar soli mai. Mai! Vi chiudete nella vostra stanza, porta e finestre chiuse, sbarrate, gli occhi, le orecchie anch’esse chiuse, tappate… Tirate un bel respiro di sollievo, credete di essere in salvo, al riparo ed ecco che nella vostra testa, nella vostra memoria s’apre una finestrella, da cui s’affaccia sorridente, tra un vaso di garofani e un altro di gelsomini, la Titti (a rotta di collo) che lavora all’uncinetto una fascia rossa di lana, oh Dio, come quella che porta quel vecchio insopportabile signor Giacomino, a cui ancora non avete fatto il biglietto di raccomandazione per il presidente della Congregazione di carità, vostro buon amico, ma seccantissimo anche lui, specie se si mette a parlare delle marachelle del suo segretario particolare, il quale ieri... no, quando fu? l’altro ieri che pioveva e pareva un lago la piazza con tutto quel brillío di stille a un allegro sprazzo di sole, e nella corsa, Dio che guazzabuglio di cose, la vasca, quel chiosco da giornali, il tram che infilava lo scambio e strideva spietatamente alla girata, quel cane che scappava… (cambiando bruscamente ritmo) Sí, sí, cari miei, v’assicuro che è un bel modo d’esser soli, questo! No. Io volevo esser solo in un modo del tutto diverso, nuovo. Tutto al contrario di quello che pensate voi: solo senza di me. Con un estraneo attorno. Vi sembra già questo un primo segno di pazzia? Forse perché non riflettete bene.La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, cosí che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti nell’incertezza e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi. Cosí volevo io esser solo. Senza di me. Voglio dire senza quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere. Solo con un certo estraneo, che già sentivo oscuramente di non poter piú levarmi di torno e ch’ero io stesso: un estraneo inseparabile da me. (ride fragorosamente) Ne avvertivo uno solo, allora! E già quest’uno mi turbava tanto, con un senso tra il ribrezzo e lo sgomento. Se per gli altri non ero quel che ora avevo creduto d’essere per me, chi ero io? Vivendo, non avevo mai pensato alla forma del mio naso; al taglio, se piccolo o grande, o al colore dei miei occhi; all’angustia o all’ampiezza della mia fronte, e via dicendo. Quello era il mio naso, quelli i miei occhi, quella la mia fronte: cose inseparabili da me, a cui, dedito ai miei affari, preso dalle mie idee, abbandonato ai miei sentimenti, non potevo pensare. Ma ora pensavo: “E gli altri? Gli altri non sono mica dentro di me. Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti hanno un naso. Il mio naso. E hanno un paio d’occhi, i miei occhi, ch’io non vedo e ch’essi vedono. Che relazione c’è tra le mie idee e il mio naso? Per me, nessuna. Io non penso col naso, né bado al mio naso, pensando. Ma gli altri? gli altri che non possono vedere dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso? Per gli altri le mie idee e il mio naso hanno tanta relazione, che se quelle, poniamo, fossero molto serie e questo per la sua forma molto buffo, si metterebbero a ridere.” Cosí, seguitando, sprofondai in quest’altra angoscia: che non potevo, vivendo, vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come quello d’un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio, avveniva come una magia, un sortilegio, o se volete una maledizione, un arresto; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio o artefatto. Io non potevo vedermi vivere. Potei averne la prova quando, alcuni giorni dopo, camminando e parlando col mio amico Stefano Firbo, mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio per la via, di cui non m’ero accorto. Non poté durare piú d’un attimo quell’impressione, ché subito seguí quel tale arresto e finí la spontaneità e cominciò lo studio. Ma in prima battuta, non riconobbi me stesso. Ebbi l’impressione d’un estraneo che passasse per la via conversando. Mi fermai. Dovevo esser molto pallido. Firbo mi domandò: «Che hai?» «Niente,» dissi. E tra me, invaso da uno strano sgomento ch’era insieme ribrezzo, pensavo: “Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio cosí, io, di fuori, quando – vivendo - non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uno lí che io stesso sulle prime, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non cosí, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no.” E mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io cosí come gli altri lo vedevano e conoscevano.
IV
DIDA: Sai che ti dico, Gengè? Sono passati altri quattro giorni. Non c’è piú dubbio: Anna Rosa dev’esser malata. Andrò io a vederla.
GENGè: Dida mia, che dici? Ma ti pare! Con questo tempaccio? Manda Diego; manda Nina a domandar notizie. Vuoi rischiare di prendere un malanno? Non voglio, non voglio assolutamente.(a parte) Quando voi non volete assolutamente una cosa, che fa vostra moglie?
DIDA: (piantandosi il cappellino in capo, porge la giacca a Gengè perché l’aiuti) Aiutami, dai, non startene lì impalato!
GENGè: (sorridendo) Arrivo, arrivo…
DIDA: Che fai, ridi?
GENGè: (sorridendo) Cara, mi vedo obbedito cosí... Ad ogni buon conto, se proprio vuoi andare, almeno, non trattenerti troppo dalla tua amica, se davvero è ammalata di gola: un quarto d’ora, non di piú. Te ne scongiuro…
DIDA: D’accordo, d’accordo… Non preoccuparti… (esce)
GENGè: Perfetto. Fino a tarda sera non tornerà. Finalmente soli!! Al lavoro. (corre dietro, afferra il grande specchio immaginario e lo porta in proscenio, quindi comincia una sorta di “training”, ad occhi chiusi) Ecco, adesso è tutto pronto. Calma, Vitangelo. Calma. Respira. Respira profondamente, Vitangelo Moscarda. Cancella dalla tua mente ogni pensiero, ogni emozione. Respira… respira… Lui è lì, nello specchio. Dall’altra parte dello specchio. Lui, l’estraneo. Cioè io visto dal di fuori. Visto come un estraneo. Uno sconosciuto. Se ne sta dinnanzi a me. Anche lui con gli occhi chiusi. Anche lui in attesa. Adesso apro gli occhi e lo sorprendo. Mi sorprendo. Mi vedo, lo vedo come se non fossi io. Come se fosse un altro fuori di me…
Mentre Gengè parla, con occhi e pugni chiusi, l’Alter Ego sale sul palco di soppiatto e gli si para dinnanzi, dall’altra parte della cornice vuota dello specchio, e si mette ad occhi e pugni chiusi, nella stessa postura di Gengè, facendogli da “immagine riflessa” e raddoppiando ogni gesto dell’altro.
GENGè: Anche lui è qua, l’estraneo, di fronte a me, nello specchio. In attesa come me, con gli occhi chiusi. Aprendo gli occhi però, davvero lo vedrò cosí come un altro? Qui è il punto. Finché tengo gli occhi chiusi, siamo due: io qua e lui nello specchio. Debbo impedire che, aprendo gli occhi, egli diventi me e io lui. Io debbo vederlo e non essere veduto. È possibile? Subito com’io lo vedrò, egli mi vedrà, e ci riconosceremo. Ma grazie tante! Io non voglio riconoscermi; io voglio conoscere lui fuori di me. È possibile? Il mio sforzo supremo deve consistere in questo: di non vedermi in me, ma d’essere veduto da me, con gli occhi miei stessi ma come se fossi un altro: quell’altro che tutti vedono e io no. Su, dunque, calma, arresto d’ogni vita e attenzione!
Gengè spalanca gli occhi, anche l’Alter Ego li spalanca. Gengè solleva una mano, poi l’altra, si volta di scatto, poi si rivolta: l’altro ripete ogni cosa all’istante, facendogli da “immagine riflessa” e raddoppiando ogni gesto. Il gioco va avanti “ad libitum”.
GENGè: (richiudendo gli occhi e facendo un gesto di stizza) Maledizione! Non ci riesco. (riapre gli occhi, urla) Sei solo un idiota! Un maledetto idiota!!
L’Alter Ego sorride.
GENGè: Sta’ serio, imbecille! Non c’è niente da ridere!
L’Alter Ego ride, poi di colpo si fa serio, lo sguardo assente.
GENGè: (spalancando gli occhi) Ah, finalmente! Eccoti là! Chi sei?
L’Alter Ego resta immobile, lo sguardo assente. Gengè gli gira attorno.
GENGè: Chi sei? Niente sei. Nessuno. Un povero corpo mortificato, in attesa che qualcuno se lo prenda. (tace, gli gira intorno, poi, ad un orecchio gli sussurra) Moscarda…
L’Alter Ego resta immobile, lo sguardo assente.
GENGè: Moscarda… Moscarda!
L’Alter Ego resta immobile, lo sguardo assente.
GENGè: (grattandosi la testa) Forse non si chiama Vitangelo Moscarda… (gli gira intorno) Se ne sta qua, come un cane sperduto, senza padrone e senza nome… Uno potrebbe chiamarlo Flik, e un altro Flok, a piacere. Non conosce nulla, non si conosce; vive così, per vivere, e non sa di vivere; gli batte il cuore, e non lo sa; respira, e non lo sa; move le palpebre, e non se n’accorge... Ha i capelli rossigni; la fronte immobile, dura, pallida; le sopracciglia ad accento circonflesso; gli occhi verdastri, quasi forati qua e là nella còrnea da macchioline giallognole; attoniti, senza sguardo; il naso che pende verso destra, di bel taglio aquilino; i baffi rossicci che nascondono la bocca; il mento solido, un po’ in rilievo: ecco: è cosí… Chi sei? Sono io? Ma potresti anche essere un altro! Chiunque può essere, questo qui. Perché dovrei esser io, questo, cosí? Vivendo, io non rappresento a me stesso nessuna immagine di me. Perché dovrei dunque vedermi in questo corpo qui come in un’immagine di me necessaria? Mi sta qui davanti, quasi inesistente, come un’apparizione di sogno, quest’immagine. Eppure, io sono per tutti, sommariamente, questi capelli rossigni, questi occhi verdastri e questo naso; tutto questo corpo qui che per me è niente; eccolo: niente! Ciascuno se lo può prendere, questo corpo qui, per farsene quel Moscarda che gli pare e piace, oggi in un modo e domani in un altro, secondo i casi e gli umori… Chi è costui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prenda…
L’Alter Ego all’improvviso starnuta.
GENGè: (prontamente) Salute!
ALTER EGO: (prontamente) Grazie!
Ridono entrambi a crepapelle.
V
GENGè: (rivolgendosi al pubblico) Fu in quel momento che cominciai finalmente a capire perché Dida mia moglie mi chiamava Gengè…
DIDA: (voce f. c.) Hai sentito, Gengè, che ha detto…? Guarda, Gengè, se a tenermi cosí la veste … S’è fermata la pèndola, Gengè… Gengè, e la cagnolina non la porti fuori? Non temi, Gengè, che Anna Rosa possa… È venuto il signor Firbo, Gengè...
ALTER EGO: Già! Perché vostra moglie vi chiamava Gengè?
DIDA: (voce f. c., in lontananza) Hai sentito, Gengè? Guarda, Gengè, se a tenermi cosí la veste … S’è fermata la pèndola, Gengè… Gengè, e la cagnolina non la porti fuori? Non temi, Gengè, che Anna Rosa possa… È venuto il signor Firbo, Gengè... Gengè! Gengè?!
GENGè: (rivolgendosi all’Alter Ego) Davvero volete sapere perchè mia moglie mi chiamava Gengè? è un nomignolo ben strano, ne converrete…
ALTER EGO: Già! E ho come il sospetto che tale nomignolo non vi garbasse né punto né poco…
DIDA: No no, bello mio, statti zitto! Vuoi che non sappia io quel che piace o quel che non piace al mio Gengè? Conosco bene i suoi gusti, io, e come la pensa il mio adorato Gengè...
GENGè: Quante volte m'aveva detto così Dida mia moglie? E io, imbecille, non ci avevo fatto mai caso.
DIDA: Vuoi che non sappia io quel che piace o quel che non piace al mio Gengè? Conosco bene i suoi gusti, io, e come la pensa il mio adorato Gengè...
GENGè: Ma sfido che ella conosceva quel suo Gengè più che non lo conoscessi io! Se l'era costruito lei! E non era mica un fantoccio. Se mai, il fantoccio ero io. Perché quel suo Gengè esisteva, mentre io non esistevo affatto. Non ero mai esistito, per lei. La mia realtà era per lei in quel suo Gengè che ella s'era foggiato, che aveva pensieri e sentimenti e gusti che non erano i miei e che io non avrei potuto minimamente alterare, senza correre il rischio di diventar subito un altro ch'ella non avrebbe più riconosciuto, un estraneo che ella non avrebbe più potuto né comprendere né' amare.
Io invece non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di fusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m'avevano data. Un Moscarda che non ero io, non essendo io propriamente nessuno per me; tanti Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per me stesso, ripeto, nessuna realtà. Gengè, sì, l'aveva, per mia moglie Dida. Ma non potevo in nessun modo consolarmene perché vi assicuro che difficilmente potrebbe immaginarsi una creatura più sciocca di questo caro Gengè di mia moglie Dida. E il bello, intanto, era questo: che non era mica senza difetti per lei quel suo Gengè, Ma ella glieli compativa tutti!
In principio pensavo che forse i miei sentimenti erano troppo complicati; i miei pensieri, troppo astrusi; i miei gusti, troppo insoliti; e che perciò mia moglie, spesso, non intendendoli, li travisava. Pensavo, insomma, che le mie idee e i miei sentimenti non potessero capire, se non cosi ridotti e rimpiccoliti, nel cervellino e nel cuoricino di lei; e che i miei gusti non si potessero accordare con la sua semplicità. Ma che! ma che! Non li travisava lei, non li rimpiccioliva lei i miei pensieri e i miei sentimenti. No, no. Così travisati, così rimpiccoliti come le arrivavano dalla bocca di Gengè, mia moglie Dida li stimava sciocchi; anche lei, capite?
E chi dunque li travisava e li rimpiccoliva cosi? Ma la realtà di Gengè, signori miei! Gengè, quale ella se l'era foggiato, non poteva avere se non di quei pensieri, di quei sentimenti, di quei gusti. Sciocchino ma carino. Ah si, tanto carino per lei! Lo amava così: carino sciocchino. E lo amava davvero.
Potrei recar tante prove. Basterà quest'unica: la prima che mi viene a mente.
Dida, da ragazza, si pettinava in un certo modo che piaceva non soltanto a lei, ma anche a me, moltissimo. Anzi, se proprio devo dire la verità, ebbene fu proprio quella sua acconciatura a colpirmi la prima volta che la vidi, e a farmi innamorare. Appena sposata, però, Dida cambiò pettinatura. Per lasciarla fare a suo modo io non le dissi che questa nuova pettinatura non mi piaceva affatto. Quand'ecco, una mattina…
DIDA: (che nel frattempo si è infilata un accappatoio e ha tirato su i capelli con l’aiuto di un paio di forcine, avanza verso Gengè ridendo) Gengè! Guarda, Gengè!
GENGè: Oh, finalmente!!
DIDA: (cacciandosi le mani nei capelli e traendo le forcine disfacendo in un attimo la pettinatura) Va' là! Ho voluto farti uno scherzo. So bene, signorino, che non ti piaccio pettinata così!
GENGè: Ma chi te l'ha detto, Dida mia? Io ti giuro, anzi, che...
DIDA: (tappandogli la bocca con la mano) Va' là! Tu me lo dici per farmi piacere. Ma io non debbo piacere a me, caro mio. Vuoi che non sappia come piaccio al mio Gengè? (ride e si allontana)
GENGè: Capite? Era certa certissima che al suo Gengè piaceva meglio pettinata in quell'altro modo, e si pettinava in quell'altro modo che non piaceva né a lei né a me. Ma piaceva al suo Gengè; e lei si sacrificava. Vi par poco? Non sono veri e proprii sacrifici, questi, per una donna? Tanto lo amava!
E io, ora che tutto alla fine mi s'era chiarito, cominciai a divenire terribilmente geloso non di me stesso, vi prego di credere: non di me stesso, signori, ma di uno che non ero io, di un imbecille che s'era cacciato tra me e mia moglie; non come un'ombra vana, no, - vi prego di credere - perché egli anzi rendeva me ombra vana, me, me, appropriandosi del mio corpo per farsi amare da lei.
Considerate bene. Non baciava forse mia moglie, su le mie labbra, uno che non ero io? Su le mie labbra? No! Che mie! In quanto erano mie, propriamente mie le labbra ch' ella baciava? Aveva ella forse tra le braccia il mio corpo?
A questo punto voglio raccontarvi, almeno in succinto, le pazzie che cominciai a fare per scoprire tutti quegli altri Moscarda che vivevano nei miei più vicini conoscenti, e distruggerli a uno a uno.
Pazzie per forza. Perché, non avendo mai pensato finora a costruire un Moscarda che consistesse ai miei occhi in un modo proprio e particolare, s'intende che non mi era possibile agire con una qualche logica coerenza. Dovevo a volta a volta dimostrarmi il contrario di quel che ero o supponevo d'essere in questo e in quello dei miei conoscenti, dopo essermi sforzato di comprendere la realtà che m'avevano data: meschina, per forza, labile, volubile e quasi inconsistente.
E ora, affinché io possa compiere la mia prima vera e propria follia, entrino in scena Marco Di Dio e sua moglie Diamante!
ALTER EGO: E chi sarebbero?
GENGè: Marco di Dio e sua moglie Diamante? Due sciagurati, afflitti da una miseria nera, così nera, ma così nera che ormai non si lavavano più nemmeno la faccia ogni mattina, anche se poi, per qualche oscura ragione quella stessa miseria senza fondo li persuadeva ancora di non lasciare nessun mezzo intentato, non già per guadagnare quel poco che bastasse almeno a sfamarli, ma per diventare dall'oggi al domani milionarii: mi-lio-na-ri-i come diceva lui, sillabando, con gli occhi truci, sbarrati.
Si credeva inventore, Marco Di Dio.
E un inventore, signori miei, un bel giorno, apre gli occhi, inventa una cosa, et voilà: diventa milionario!
Tanti ancora lo ricordano come un selvaggio, appena venuto dalla campagna a Richieri. Ricordano che fu accolto allora nello studio d'uno dei nostri più reputati artisti, ora morto; e che in poco tempo vi aveva imparato a lavorare con molta perizia il marmo. Se non che il maestro, un giorno, volle prenderlo a modello per un suo gruppo che, esposto in gesso in una mostra d'arte, divenne famoso sotto il titolo Satiro e fanciullo.
Il delitto era nella creta.
Non sospettò il maestro che quel suo scolaro potesse sorgere la tentazione di tradurre a sua volta quella visione fantastica, dalla creta ov'era lodevolmente fissata per sempre, in un movimento momentaneo e molto meno lodevole, mentre, oppresso dall'afa d'un pomeriggio estivo, sudava nello studio a sbozzare nel marmo quel gruppo.
Il fanciullo vero non volle avere la sorridente docilità che quello finto dava a vedere nella creta; gridò aiuto; accorse gente; e Marco di Dio fu sorpreso in un atto ch'era della bestia sorta in lui d'improvviso in quel momento d'afa.
Sorpreso in quell'atto d'un momento, fu condannato per sempre. Non trovò nessuno che volesse avere considerazione di lui; e, uscito dal carcere, si diede ad almanaccare i più bislacchi disegni per sollevarsi dall'ignominiosa miseria in cui era caduto, a braccetto con una donna, la quale un bel giorno era venuta a lui, nessuno sapeva come né da che parte.
Diceva da una decina d'anni che sarebbe partito per l'Inghilterra la settimana ventura. Ma erano forse passati per lui questi dieci anni? Erano passati per coloro che gliela sentivano dire. Egli era sempre deciso a partire per l'Inghilterra la settimana ventura. E studiava l'inglese. O almeno, da anni teneva sotto il braccio una grammatica inglese, aperta e ripiegata sempre allo stesso punto, sicché quelle due pagine dell' apertura con lo strusciare del braccio e il sudicio della giacca erano ridotte ormai illeggibili, mentre le seguenti erano rimaste incredibilmente pulite. Ma fin dove era il sudicio egli sapeva. E di tratto in tratto, andando per via, rivolgeva di sorpresa, aggrondato, qualche domanda alla moglie, come a saggiarne la prontezza e la maturità:
ALTER EGO (Marco Di Dio): How are you?
DIDA (Diamante): I’m very well, thank you.
ALTER EGO (Marco Di Dio): Is Jane a happy child?
DIDA (Diamante): Yes, Jane is a happy child.
ALTER EGO (Marco Di Dio): Were is the cat?
DIDA (Diamante): The cat is on the table.
ALTER EGO (Marco Di Dio): Were is the dog?
DIDA (Diamante): The dog is under the table.
ALTER EGO (Marco Di Dio): How are you?
DIDA (Diamante): I’m very well, thank you.
ALTER EGO (Marco Di Dio): Is Jane a happy child?
DIDA (Diamante): Yes, Jane is a happy child.
ALTER EGO (Marco Di Dio): Were is the cat?
DIDA (Diamante): The cat is on the table.
ALTER EGO (Marco Di Dio): Were is the dog?
DIDA (Diamante): The dog is under the table.
(Scenetta ripetibile ad libitum.)
GENGè: Ora, questi due sciagurati di Marco di Dio e di sua moglie Diamante abitavano da anni in una catapecchia di mia proprietà, senza che mai nessuno, né io né i miei amministratori, gli avesse mai chiesto un centesimo di pigione. E fu proprio questa circostanza che mi diede il mezzo di tentare, tramite Marco Di Dio e sua moglie Diamante, il mio primo esperimento, per stanare e distruggere uno dei centomila Mostarda a cui gli altri intorno a me avevano dato forma e vita.
Mi recai innanzi tutto nello studio del notaio Stampa, in Via del Crocifisso 24… In Via del Crocefisso c’era un traffico di uomini, carri, carretti… insomma, un trambusto e un chiasso senza paragoni…
Dunque signor notaio eccomi qua. Ma scusi, lei se ne sta sempre qua così, sprofondato in questo silenzio?
ALTER EGO: (che nel frattempo ha guadagnato la scena) Silenzio? Quale silenzio?
GENGè: Già, certo, non nella via… certo… Ma qui dentro, signor notaio, ci sono tutte queste carte, su questi scaffali impolverati… Non sente?
ALTER EGO: Che cosa?
GENGè: Ma questo raspìo! Che è? Ah, si, le zampine, scusi, le zampine del suo canarino che raspano contro lo zinco delle sbarre della gabbietta…
ALTER EGO: Già, sì… Ma che vuol dire?
GENGè: Oh, niente. Ma non le dà sui nervi questo raspìo sullo zinco?
ALTER EGO: Il raspìo? Ma chi ci bada! Non l’avverto neppure…
GENGè: Eppure, ci pensi… lo zinco sotto le zampine di un canarino nello studio di un notaio… Scommetto che non canta questo canarino…
ALTER EGO: Nossignore, in effetti non canta. Ma che c’entra il canarino? Non sarà venuto fin qui per parlarmi del canarino, immagino.
GENGè: No, certo. (cambiando tono, formale) Lei signor notaio di certo sarà al corrente di una certa casupola sita in vicolo della Badìa 33 di proprietà del signor Vitangelo Mostarda, figlio del fu Antonio Moscarda…
ALTER EGO: Mi scusi, ma non è lei, Vitangelo Moscarda?
GENGè: Come? Ah, sì. Naturalmente. sarei io, certo… Ma dov’ero rimasto? Ah, sì. E la casa, lei non ha alcuna difficoltà, non è vero? ad ammettere che è mia, come tutta l’eredità del fu Antonio Moscarda mio padre… Oh, piccola, una casetta di nessun conto: cinque o sei stanzette… ma comunque mia, di mia proprietà, da poterne disporre a piacer mio. Non è così?
ALTER EGO: Certamente.
GENGè: Ebbene ora dunque lei dovrebbe… (si avvicina e gli bisbiglia qualcosa all’orecchio) Naturalmente tutto ciò resterà tra lei e me, signor notaio, sotto il segreto professionale. Siamo intesi?
ALTER EGO: Naturalmente.
GENGè: Bene, signor notaio. Dunque proceda. (mentre si allontana, tra sé) E, mi dica, signor notaio, come cammino? Ma col mio passo, naturalmente!
ALTER EGO: Come dice, scusi?
GENGè: No, nulla. Dicevo: ora me ne vado col mio passo, signor notaio. Ma lo sa che una volta ho visto ridere un cavallo? Sissignore, un cavallo, mentre camminava. Ora lei magari se ne scende in strada e resta per una mezza giornata a gurdare un cavallo sul muso per vedere se ride. Macchè! Tutto sbagliato. Non lo deve guardare sul muso per vederlo ridere! Lo sa con che cosa ridono i cavalli? Con le natiche! Glielo assicuro. Un cavallo camminando talvolta ride con le natiche… Sì, ride di certe cose che vede o che gli passano per il capo. Insomma, se vuol vedere ridere un cavallo gli deve guardare le natiche. Ossequi, signor otaio. Mi stia bene
Moscarda si allontana. L’alter ego scende dal palco.
GENGè: (rivolgendosi al pubblico) Avete visto che faccia? (ridacchia)
A questo punto, sbrigate queste pratiche col notaio, me ne andai di filato alla Banca,da Firbo, il mio amministratore…
Dunque signor Firbo, sono venuto qui oggi per chiedervi conto d’un certo Marco Di Dio. Vorrei sapere come mai costui non paga la pigione da anni e ancora non si fanno gli atti per cacciarlo via.
ALTER EGO: Ma che dici, scusa? Che discorsi fai?
GENGè: Non vi raccapezzate? Marco Di Dio. La paga o non la paga la pigione?
ALTER EGO: Ma quando mai scusa tu ti sei occupato di queste cose? Tu sai bene che tuo padre, dopo i fattacci che occorsero, pensò bene di lasciarlo lì per tanti anni, quel poveraccio, senza molestarlo. Come t’è venuto in mente adesso?
GENGè: T’avverto, caro mio, che io non sono mio padre. Voglio che tu faccia subito gli atti. Sfratto immediato. Il padrone sono io e comando io. Poche storie. Voglio poi l’elenco delle mie proprietà con i relativi incartamenti. Sono stato chiaro?
ALTER EGO: Chiaro, chiarissimo… (se ne va)
GENGè: Ed eccoci alla scena madre, all’apoteosi. Ho ancora negli orecchi lo scroscio inarrestabile dell’acquazzone che neanche a farlo apposta si riversò sulla tragica scena di quello sfratto. Mi sembra ancora di vederlo il vicolo dove sorgeva la catapecchia di quel miserabile di Marco Di Dio… la gente assiepata lungo i muri per ripararsi dalla pioggia mentre assiste allo spettacolo… quelli che passano con l’ombrello e si arrestano per curiosità vedendo quella ressa e domandano a quelli che già sono là in prima fila…
ALTER EGO: (facendo le varie voci)
DIDA: Ma cosa hai fatto, Gengè? Sei impazzito, Gengè? Ma che follìa è mai questa? Ha donato a quello sciagurato di Marco Di Dio la nostra casa di Via Della Badìa! Gengè!!
gengè: (spintonandola e gettandola a terra) Finiscila tu col tuo Gengè che non sono io, non sono io, non sono io! Basta con questa marionetta! Basta! Basta!!!
Stacco musicale
gengè: L’orrore della mia violenza mi freme vivo nelle mani ancora tremanti. Ma avverto che non è tanto della violenza quell’orrore, quanto del cieco insorgere in me di un sentimento e d’una volontà che alla fine mi hanno dato corpo… un corpo di bestia … spaventoso e violento
Ecco…sono diventato … UNO!
Io.
Io che così ora mi voglio così.
Io che così ora mi sento così.
FINALMENTE
Stacco musicale
DIDA: (voce f. c., in lontananza) Hai sentito, Gengè? Guarda, Gengè, se a tenermi cosí la veste … S’è fermata la pèndola, Gengè… Gengè, e la cagnolina non la porti fuori? Non temi, Gengè, che Anna Rosa possa… È venuto il signor Firbo, Gengè... Gengè! Gengè?!
Alter ego: (voce f. c., in lontananza) Moscarda! Vitangelo Moscarda!!
gengè: (con la camicia di forza) Gengè… Moscarda… Vitangelo Moscarda… No, no… Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri. del nome di oggi, di domani. Non è altro che un’epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti, a chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. e non conosce nomi, la vita. Io sono tutto ciò che mi circonda. Sono quest’albero. Sono la nuvola che passa. Sono il vento che mi soffia tra i capelli, le pagine del libro che leggo. Tutto fuori, vagabondo.
Me ne sto qui, nell’ospizio dei pazzi. La città è lontana. Me ne giunge talvolta in lontananza, nella calma del vespro, il suono delle campane… Pensare alla morte e pregare. C’è chi ancora ha bisogno di questo. Di questo mi parla il suono di quelle campane. Ma io non ho più di questi bisogni, perché muoio ogni istante, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo, non più in me, ma fuori di me, in ogni cosa fuori di me…
Fuori, tutto fuori! Fuori!! Fuori!!! Albero… nuvola… vento… Fuori!! Fuori!!! Albero… nuvola… vento…
Fine.