Principali mostre personali 2013/ 2018

Alla Galleria ItinerArte, Venezia, Rio Terà della Carità -Dorsoduro 1046 (accanto alle Gallerie dell'Accademia)

14 aprile - 1 maggio 2018, "Parafrasi veneziane"

Alla Galleria Cantiere Barche 14, Vicenza, Stradella Barche 14

14 gennaio-28 febbraio 2018, "Giorni di freddo", a cura di Paola Caramel

Alla Galleria ItinerArte, Venezia, Rio Terà della Carità -Dorsoduro 1046 (accanto alle Gallerie dell'Accademia)

5-14 settembre 2017, "Skylines et Silhouettes", nell'ambito della rassegna "AUT-OUT OF-F BIENNALE"

A Castel dell'Ovo, Napoli, nell'ambito del Progetto DRAMATIS PERSONAE.

Dal 16 gennaio al 14 febbraio 2016.

Virgilio Patarini - DRAMATIS PERSONAE 2016. Org.  Zamenhof Art, in collaborazione col Comune di Napoli - Assessorato alla Cultura, e col patrocinio dell'Unesco di Napoli.

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A Palazzo della Racchetta, Ferrara, via Vaspergolo 4,6,6a, Ferrara Art Festival -Extra Time

Dal 21 AL 30 agosto  2015:

Virgilio Patarini - EX-PO(st) 2015

personale antologica

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Presso il Complesso Museale Ricci Oddi. Piacenza, via S.Siro, 13

Dal 16 AL 22 maggio  2015:

Virgilio Patarini - EX-PO(st) 2015

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Alla Galleria Spazio Libero 8, Milano, Alzaia Naviglio Pavese, 8

Dal 18 AL 24 APRILE 2015:

Virgilio Patarini - Giovanni Drogo, NAVIGLI CORSARI E ALTRE STORIE

Alla Galleria del Rivellino, Ferrara, via Baruffaldi, 6

Dal 19 luglio al 3 agosto 2014:

Virgilio Patarini - Luigi Profeta, MEMORIE CONDIVISE

Alla Galleria 20, Torino,

Corso Casale, 85

Dal 10 al 23 maggio 2014:

Virgilio Patarini, ZIBALDONE 2014

Mostra personale di pittura

SPAZIO E, Milano

Stratificazioni

mostra bi-personale di Raffaele De Francesco e Virgilio Patarini

Dal 15 al 28 febbraio 2014

ROCCA VISCONTEA, Lacchiarella (MI), dal 30 nov. al 12 dicembre 2013:

LA RUGGINE E LA LUCE, mostra personale di Virgilio Patarini

VUOTI DI SCENA

Tragedia dell’assurdo (o assurdità del tragico?)

in scene intercambiabili

 

 

Vuoti di scena, testo segnalato al Premio I.D.I Nuovi Autori nel 1995, ha debuttato in teatro a Milano al Teatro Franco Parenti nel 1996, mise en espace di Antonio Sixti, con protagonisti Giovanni Battaglia e Roberta Fossati. Produzione I.D.I. (Istituto del Dramma Italiano).

 

 

AVVERTENZA – Analogamente ad un altro mio testo (in quel caso letterario: Il prigioniero) questo testo per la scena rappresenta un piccolo labirinto mentale costituito da un certo numero di stanze. Ogni singola scena rappresenta una stanza.

La caratteristica principale di qualsiasi labirinto è di poter essere attraversato seguendo molteplici, differenti percorsi. Così questo testo per la scena può essere liberamente scomposto, mutando a piacere l’ordine delle scene, senza che per questo cambi nulla di fondamentale. Alcune scene possono essere omesse (ad es.: LA RIVOLTA), altre possono essere ripetute più volte (ad es.: L’ASSENZA).

Tutti i percorsi sono validi poiché nessuno è veramente valido. A che serve un percorso all’interno di un labirinto se non a trovare una via d’uscita? Ma da questo particolare labirinto non c’è alcuna possibilità di uscita: una volta entrati si vaga in esso per sempre. Seguire un percorso o un altro fa lo stesso. E’ comunque inutile. Preferire un percorso ad un altro è un atto assolutamente gratuito. Da questo labirinto non si evade.

E’ il labirinto in cui dalla notte dei tempi sono costretti a vagare i personaggi d’ogni tragedia umana: apparente-mente si muovono, evolvono, progrediscono; ma in realtà girano in tondo, tornano sempre al punto di partenza, non fanno nessun vero passo avanti. Questo vale per tutti. Per i personaggi, per l’autore, per il lettore, per lo spettatore ...

Dunque, quello che qui propongo è soltanto uno tra gli innumerevoli percorsi possibili, quello che attualmente preferisco.

Nell’eventualità di un allestimento l’ordine delle scene potrebbe essere addirittura sorteggiato di volta in volta direttamente durante lo spettacolo da uno spettatore scelto a caso o da uno dei due attori, in modo da rendere più esplicito quanto sin qui sostenuto.

 

 

 

L’attesa

 

Lei se ne sta seduta al centro della scena, indossa vistosi occhiali neri. Lui è in piedi alle sue spalle, a torso nudo, con un grembiule da macellaio sporco di sangue, a testa bassa.

 

LEI : Oreste?

LUI : Cosa?

LEI : Oreste, dove sei?

LUI : Sono qui.

LEI : Oreste, perché non torni?

LUI : Sono tornato ... sono qui...

LEI : Oreste! ti prego, torna!

LUI : (tace)

LEI : Giro la testa a destra e a sinistra, ma Oreste non torna  ... Quanto tempo sarà che lo aspetto? Ogni tanto mi sembra di sentire un rumore, mi volto, ma ... nulla! nessuno! non viene nessuno. Questa attesa è snervante, consuma ogni istante della mia esistenza ... (solleva la testa di scatto, come se avesse sentito un rumore) Oreste?

LUI :  Sì?

LEI : Oreste, sei tu?

LUI : Sì, sono io.

LEI : Nessuno, non viene nessuno ... Sollevo la testa, mi metto in ascolto, aspetto ... ma, nulla! nessuno! non viene nessuno. E’ tutta la vita che aspetto. Quand’ero bambina aspettavo mio padre. Tutte le mattine correvo giù al porto, mi sedevo sul molo, e aspettavo. Quando vedevo una nave comparire all’orizzonte saltavo in piedi e domandavo a tutti: «E’ quella la nave di mio padre? E’ quella la nave di mio padre?» No, non era quella ... Allora mi risiedevo e ricominciavo ad aspettare. Questa storia è andata avanti per anni. La cosa buffa è che quando mio padre è arrivato davvero non sono stata io la prima a vederlo, e non ho dovuto chiedere niente a nessuno: io me ne stavo seduta come al solito sul molo, ma quella mattina c’era un sacco di gente sul molo oltre a me , un sacco di gente che parlottava e guardava all’orizzonte; allora mi avvicino e domando: «Che succede?» «Arriva tuo padre», mi risponde uno. Mio padre? Mi volto, guardo all’orizzonte: nulla, nessuna nave ... Il fatto è che c’era una sentinella appollaiata in alto sulla torre del faro che aveva avvistato la nave, prima ancora che fosse visibile dal molo, e aveva subito diffuso la notizia in città ... No, le cose non vanno mai come uno se le immagina ... Così è andata anche dopo, quando mio padre è sbarcato. C’era un sacco di cose che avrei voluto raccontargli, e una sacco di cose che avrei voluto chiedergli ... e invece nulla, non sono nemmeno riuscita a vederlo in mezzo a tutta quella gente, quando la sera è sbarcato ... E il giorno dopo, il giorno dopo, quando l’ho visto, ormai era troppo tardi ... Poi si è trattato di aspettare mio fratello Oreste. Era ancora un bambino quando l’ho affidato al vecchio precettore, perché non facesse la stessa fine del padre.

«Mi raccomando, vecchio», gli dissi, «raccontagli tutto, e quando sarà grande insegnagli la strada del ritorno». Era l’alba del giorno dopo ... erano passate pochissime ore da quando papà era tornato, eppure erano successe tante di quelle cose nel corso di quella notte ... io stessa, senza accorgermene, ero diventata una donna ... no, non ero più una bambina ... Come avrei potuto esserlo ancora, dopo tutto quello che avevo visto? Così dall’indomani stesso, dopo aver smesso di aspettare mio padre, incominciai ad aspettare mio fratello ... Non sono restata neppure un giorno della mia vita senza essere logorata dall’attesa di qualcuno, di un padre, o di un fratello ... fino ad oggi ... tutta una vita consumata nell’attesa, nell’attesa di qualcuno che non arrivava, nell’attesa di qualcosa che non accadeva ... (come prima, solleva all’improvviso la testa, resta in ascolto, come se avesse udito un rumore) Oreste? (pausa) Oreste, sei tu? (riprendendo il discorso) fino ad oggi, dicevo ... fino al momento in cui Oreste è tornato come un’ombra dall’oltretomba della lontananza, scivolando nell’atrio come uno spettro del passato, fermandosi per un istante, incrociando per un istante il mio sguardo, per poi scomparire in cima alle scale che conducono alle stanze della madre, come un’allucinazione del mio povero intelletto minato dalla febbre dell’attesa ... (di nuovo s’arresta, come se avesse sentito qualcosa) Oreste? (pausa) No, nulla ... Oreste è tornato. L’ho visto con i miei occhi, anche se solo per un istante ... Tutte quelle notizie sulla sua morte, evidentemente, erano false ... probabilmente si trattava di un trucco escogitato per poter cogliere di sorpresa la madre ... Sì, dev’essere così. Egli è tornato; io l’ho veduto ... e se è tornato non ci possono essere dubbi sulle ragioni che l’hanno riportato qui ... Tutti conoscono la storia di Oreste. E tutti sanno che quando egli torna, lo fa per un motivo ben preciso, tragico e inequivocabile ... Evidentemente il vecchio precettore ha fatto fino in fondo la sua parte, raccontandogli ogni cosa, conducendolo per mano nelle agghiaccianti regioni del mito, educandolo alla vendetta come unica possibilità di pacifica sopravvivenza, insegnandogli l’arte del matricidio come unica possibilità di ritorno in famiglia, e la cultura dell’angoscia come unica strada per la serenità ... Dunque egli è tornato come un fantasma, è scivolato nel palazzo come un assassino, e presto scenderà da quelle scale come un eroe ... Io sono qui che lo aspetto ... (si arresta) Oreste?

LUI : Che c’è?

LEI : Oreste, sei tu?

LUI : Sì ... credo di sì ...

LEI : No, nulla ... non è nessuno ... non viene nessuno ... Strano, però, dovrebbe essere qui da tempo ormai ... Quanto tempo sarà passato? Dovrebbe essere già tornato ... A meno che ... No, non è possibile ... Sono sicura che era lui quell’ombra che ho visto scivolare nell’atrio del palazzo ... E se non fosse stato lui? Forse era un ladro, o un assassino ... un volgare assassino qualunque, intendo dire, non un matricida mitico come Oreste ... Ma quanto tempo sarà passato? (s’innervosisce) In quanto posto maledetto non ci sono orologi né calendari, ed è impossibile calcolare esattamente il tempo che passa .. si tratta di un tempo elastico, un tempo maledettamente elastico che si allunga o si accorcia inaspettatamente secondo una logica che sfugge ... e che confonde le idee ... Spesso mi domando se davvero io sia l’Elettra-donna che aspetta il ritorno di suo fratello Oreste o non piuttosto l’Elettra-bambina che aspetta il ritorno del padre Agamennone ... E anche ammettendo che io stia aspettando Oreste, a che punto stiamo della storia? Sto aspettando un Oreste ragazzo che torni dall’esilio, accompagnato dal Vecchio precettore, per vendicare la morte di suo padre uccidendo la madre e diventare così un uomo? oppure egli è già tornato e io sto aspettando che scenda da quelle scale con le mani sporche del sangue del matricidio? Oppure, ancora, sto aspettando che Oreste braccato dalle cagne del rimorso e fuggito per il mondo, faccia finalmente ritorno? Questa incertezza è peggio dell’attesa ... (gridando) Oreste!

LUI : Ssst! Zitta, potrebbero sentirci!

LEI : (più piano) Oreste!

LUI : Che cosa vuoi Elettra?

LEI : Oreste, perché non torni?

 

 

La storia

 

Lui se ne sta seduto al centro della scena. Lei, alle sue spalle, brancola nel buio come una cieca.

 

LEI : Oreste, dove sei? ... Oreste ...

LUI : Sono qui.

LEI : Oreste, dove sei?

LUI : Non so esattamente dove .. qui, da qualche parte ... (innervosito). In questo posto maledetto non ci sono insegne né cartelli stradali: è impossibile stabilire dove ci si trovi esattamente ... Si tratta di uno spazio, che può cambiare continuamente, pur restando sempre uguale, uno spazio che può contenere contemporaneamente più spazi lontani mille miglia in pochi metri quadri e che comunque non è mai quello che sembra ... Dove sono? Potrei essere ad Argo, a Micene, oppure in Tauride, ad Atene ...

LEI : (urtando contro la sedia di Oreste) Oreste! Sei qui!

LUI : Come?

LEI :  (come una cieca gli legge i lineamenti del viso tastandolo con la punta delle dita) Oreste, sei davvero tu?

LUI : Sì ... direi di sì.

LEI : (abbracciandolo) Oreste! Da quanto tempo ti aspetto! E tu chissà dov’eri!

LUI : Sono sempre stato qui.

LEI : Chissà dove ti trascinava la furia del destino!  Tu non sai tutto quello che è successo...

LUI : So tutto.

LEI : Ma adesso che sei tornato, ti racconterò ogni cosa, per filo e per segno, fin da principio...

LUI : E’ una storia lunga e dolorosa ... lo so ... (sottovoce) ma bisogna che io la conosca ...

LEI : E’ una storia lunga e dolorosa, ma bisogna che tu la conosca ...

LUI : ... Bisogna conoscere come stanno le cose per poter agire ...

LEI : ... Bisogna conoscere come stanno le cose per poter agire. Perché tu devi agire, Oreste. Perché Oreste è colui che viene per compiere l’azione ...

LUI : Affinché il cerchio si chiuda, e questa lunga e dolorosa storia abbia fine ...

LEI : Affinché il cerchio si chiuda, e questa lunga e dolorosa storia abbia fine  ...            Dov’ero rimasta?

LUI : (sottovoce, come se suggerisse) Alla storia lunga e dolorosa ... la storia della nostra famiglia ...

LEI : (come se non avesse sentito il suggerimento) Ah, sì ... Una storia lunga e dolorosa ... la storia della nostra famiglia (Lui le sussurra all’orecchio parola per parola) Tutto ebbe inizio al tempo della Grande Guerra ... (Lei si siede al posto suo; lui si mette alle sue spalle e continua a suggerirle, sottovoce, all’orecchio). Le giornate si inseguivano veloci, come rondini nel cielo di marzo: un’interminabile teoria di giornate senza vento ... Una calma piatta, apparente ... Il lieve incresparsi dell’onda al riflesso del sole ... Come un fremito, un fremito che giorno dopo giorno saliva, cresceva, si diffondeva a rapide ondate, tra gli uomini irretiti dall’attesa ... Come il frullo d’ali di uno stormo di corvi intrappolato nella rete del tempo ... Un irrerefrenabile desiderio che urgeva, montava ... Come l’acqua di una sorgente sotterranea che ribolle in cerca di una fenditura, un punto di rottura ... Finché nostro padre in una fredda, agghiacciante mattinata di aprile non dischiuse le livide braccia al sole, sollevando le mani, i pugni chiusi che stringevano l’arma affilata ... Finché nostro padre non sacrificò nostra sorella maggiore alla sua smania sfrenata di partire ... Poi vennero giorni bui, giorni d’oscuro inverno ... giorni in cui il tempo si eclissa, e non puoi far altro che rannicchiarti sotto le coperte e continuare a dormire ... mesi in cui anche i sogni affondano nel pantano grigiastro e indistinto del tempo che passa inavvertito ... Anni in cui nostro padre stette lontano e nostra madre s’aggirava per le stanze vuote del palazzo pallida come uno spettro, con gli occhi arrossati, scavati da una smania sfrenata di vendetta ... Poi, alla fine, nostro padre tornò, preceduto da folate di uccelli neri che una sera rifluirono gracchianti nel giardino interno del palazzo, sotto gli occhi sbarrati della madre ... Presagi di cattivi pensieri ... La notte stessa la nave di nostro padre attraccò: egli ne discese senza scorta, salì le scale del palazzo, varcò la porta, e senza alcuna esitazione si lasciò andare tra le gelide braccia della morte ... Poi venne il tuo turno, fratello di spiegare le vele al vento della disgrazia. Fui io stessa che ti affidai alle mani del vecchio precettore perché ti mettesse in salvo. L’aria di questa casa s’era fatta troppo pesante. Ed ecco che adesso tu, dopo un numero imprecisato di anni sei ritornato. Sei cresciuto lontano, educato dal vecchio alla cultura dell’odio e della vendetta, ma ora che sei qui, davanti a quelle scale e a quella porta, davanti al tuo destino da compiere, e al tuo ruolo da ricoprire, incroci il mio sguardo ed indugi un istante, ma nel rosso dei miei occhi ritrovi le ragioni dell’odio e della vendetta, ritrovi il coraggio, sali quelle scale, varchi quella porta, e fai quello che devi fare. Poi scappi via, braccato dal rimorso (Pausa). Oreste, sei ancora lì?

LUI :    (tace)

LEI :    Oreste!

LUI :    Che c’è?

LEI :    Mi domandavo ...

LUI :    Cosa?

LEI :    ... a che punto siamo della storia?

LUI :    Che cosa?

LEI :    Insomma ... Ho perso il filo ...

LUI :    Come, hai perso il filo?

LEI :    Non so più a che punto siamo. Io sono qui che aspetto, daccordo. Ma che cosa aspetto? Aspetto mio padre che torni dalla guerra, oppure aspetto mio fratello? E se aspetto mio fratello, aspetto che torni dall’esilio per uccidere mia madre, oppure è già tornato e aspetto ormai soltanto l’urlo della madre scannata e lui che scende da quella scalinata con in pugno l’arma del delitto insanguinata? Oppure anche questo è già accaduto, e aspetto che lui ritorni dal nuovo esilio a cui l’ha condannato la sua coscienza, braccata dai rimorsi? Sono confusa. Io sono qui che aspetto, daccordo. Ma a che punto siamo della storia? Oreste, tu lo sai?

LUI :    Io? Scherzi? Io so sempre dove sono...

LEI :    Bene! Allora sei in grado di aiutarmi. Dove sei?

LUI :    Io sono qui.

LEI :    Qui dove?

LUI :    Non so esattamente dove ... qui, da qualche parte ... (innervosito). In questo posto maledetto non ci sono insegne né cartelli stradali: è impossibile stabilire dove ci si trovi esattamente ...

 

 

L’assenza

 

Lei se ne sta seduta al centro della scena. Lui è in piedi alle sue spalle.

Questa scena consiste di sole due battute da ripetersi un numero a piacere di volte, con l’accorgimento di variare sistematicamente l’intonazione della prima (recitata da lei) e di ripetere invece esattamente con la stessa intonazione la seconda (recitata da lui).

 

LEI :    Oreste, dove sei?

LUI :    Sono qui.

 

Mosca cieca

 

Lui è in piedi, appoggiato al muro di fondo. Oppure seduto sulle scale. Lei indossa vistosi occhiali da sole e brancola come una cieca, al centro della scena. Avanti, in proscenio, una sedia vuota.

 

LEI:     (brancolando nel buio ripete più volte) Oreste, dove sei? (poi, dopo aver a lungo brancolato, d’improvviso si ferma, si toglie gli occhiali, avanza in proscenio, si siede, e si rivolge direttamente agli spettatori). In fondo è una specie di gioco ... Sì - sì, proprio così: una specie di gioco. Nient’altro. Sono anni daltronde che va avanti questo gioco ... (pausa) Come dice? (Si rivolge ad uno spettatore, come se costui le avesse chiesto qualcosa). Sì, certo, le regole sono sempre le stesse. Almeno credo (pausa). No, non posso esserne sicura. (pausa). Daltronde l’unico che potrebbe rassicurarmi è mio fratello Oreste. E’ con lui che sto giocando. Immagino che egli conosca le regole ... (pausa). Come? Perché non glielo chiedo? Mio caro signore, scusi, ma lei finora che film ha visto? Una delle regole è proprio che non possiamo parlarci. Almeno credo (pausa). Credo che sia la regola più importante (pausa). E’ come se fossimo in tempi e in spazi diversi. O qualcosa del genere (pausa). Come se io fossi qui, adesso. E lui, invece chissà dove, chissà quando (pausa). O viceversa? (pausa). Daltronde è lo stesso (pausa). Io brancolo nel buio in cerca di lui. Lui è qui, lo so. Eppure, al tempo stesso, chissà dov’è? Chissà dove lo trascina la furia cieca del destino. Io invece sono qui. Sono qui che lo aspetto (pausa). Oreste? Oreste, dove sei?

LUI:     (distrattamente) Sono qui.

LEI:     Ecco, vedete? Lui non c’è. E io brancolo nelle tenebre (pausa). Infondo è una specie di gioco. Una specie di mosca cieca. O qualcosa del genere. D’altronde bisogna pure inventarsi qualcosa ... qualunque cosa! Pur di riempire questo vuoto, questo silenzio spaventoso che si apre un varco nel cuore delle notti come questa e che c’inghiotte ... Questo vago, indefinibile sentimento d’assenza, che ti senti salire piano piano dal fondo delle viscere, che ti prende alla bocca dello stomaco, e ti stringe sempre di più, come una morsa ... «Sarà la fame», ti dici sottovoce «Sì, sì: dev’essere il morso della fame», ti ripeti sottovoce, per cercare di convincerti, ma sai che si tratta di ben altro ... E allora ti siedi e aspetti. Non importa chi. Tanto per fare qualcosa ... qualunque cosa! Non importa cosa. Io, per quanto mi riguarda, aspetto Oreste. Sono anni che lo aspetto, e se ci penso non so più neppure il perché. Ma so che lui verrà ... Ne sono sicura. Sarà qui da un momento all’altro. E allora tutto cambierà. Sarà una svolta, la svolta della vita! Un’impennata ... Un’autentica impennata in questa mia piatta esistenza ... (voltandosi di scatto, come se avesse sentito un rumore) Oreste? (timidamente) Oreste, sei tu? (aspetta qualche istante, poi, delusa, si rimette gli occhiali tondi e scuri, si alza, e riprende a brancolare come una cieca) Oreste, dove sei?

LUI:     Sono qui.

LEI:     Oreste ... Oreste dove sei?

 

 

La confessione

 

Lui è seduto al centro della scena. Lei, alle sue spalle, brancola nel buio come una cieca.

 

LEI :    Oreste ... Oreste, dove sei?

LUI :    Qui dove sono adesso ...

LEI :    Oreste ... Oreste, dove sei?

LUI :    ... questa è la tana della memoria ... covo e groviglio di serpi ... E’ difficile e doloroso dipanare il filo della memoria ... camminare come un’acrobata sul filo rosso che lega tra di loro gli avvenimenti di questa mia tragica storia e sciogliere i nodi che ancora mi legano al passato ... ma credo che sia questa la ragione per cui mi sono rintanato qui dentro ...

LEI :    Oreste, dove sei?

LUI :    ... qui dentro, in questa stanza vuota ... Questo è lo spazio vuoto, freddo, con le pareti di pietra ... lo spazio vuoto, freddo, della mia anima ...

LEI :    Oreste, dove sei?

LUI :    Elettra, ascoltami ...

LEI :    (si arresta, si toglie gli occhiali, lo guarda, lo ascolta)

LUI :    Ascoltami, Elettra. Ti parlo da questo angolo della mia solitudine ... C’è poca luce qui dentro, e il panorama desolato della mia anima ...

LEI :    (guardandolo con tenerezza) Oreste, dove sei?

LUI :    (rispondendole) Non so esattamente ... Credo che questo posto un tempo fosse una torre ... oppure, forse, una specie di bunker della seconda guerra mondiale .. Dev’essere vicino al mare, perché ogni tanto mi sembra di distinguerne il suono in lontananza ... C’è una porta ... Questo posto ha una porta ... La porta è sempre aperta ... è una porta senza battenti ... anzi, non è neppure una porta in realtà ... è un’apertura rettangolare ... La luce viene da lassù ... Ci sono parecchi scalini che salgono da qui, dal piano dove sono io, fino a quella porta e alla sua luce sinistra ... Quella è l’unica via d’uscita ... Ogni tanto guardo su, verso l’apertura, e ci penso: dev’esserci un mondo là fuori che va avanti ... Dentro, qui dentro ci sono io ... rintanato, come un animale braccato ... riprendo fiato un istante durante la fuga ... E’ tutta la vita che scappo ... Non che qui dentro sia al sicuro ... No, non sono affatto al sicuro qui dentro, perché c’è quella maledetta porta aperta, quella maledetta porta senza battenti, quella ferita aperta che non si richiude ... Continua anche qui dentro la fuga ... Oreste, veloce come una lepre! Oreste, col cuore di un coniglio! E’ tutta la vita che scappo ... Ho cominciato presto, fin da ragazzo, quando mio padre è morto ammazzato. Non è vero che ero troppo piccolo, che Elettra mi ha messo in salvo affidandomi al vecchio tutore ... Non è vero niente di tutto questo. Ero grande abbastanza per pisciarmi sotto dalla paura e per scappare via veloce come il vento, di mia iniziativa. Il vecchio mi è venuto dietro. Forse aveva avuto paura anche lui. Oppure si preoccupava per me. Non lo so. Non importa. Quello che importa è che da allora io scappo senza sosta, dai posti e dalle persone. Quello che importa è che da allora io non ho il coraggio di affrontare la vita, le responsabilità ... Sono un vigliacco. E’ questa la verità. Non sono all’altezza del nome che porto. Non potrò mai essere Oreste il vendicatore. Tutti si aspettano questo da me. Questo è il mio ruolo. E io non sono all’altezza. Mi manca il coraggio, la decisione, la capacità di essere protagonista, di vivere la mia vita in prima persona, di fare delle scelte precise e di assumermi le conseguenti responsabilità. Delle volte ho la netta sensazione che ci sia stato uno sbaglio, una sostituzione, un errore di persona. Io sono una misera comparsa. Qualcuno in sala-costumi dev’essersi sbagliato e mi ha fatto indossare le vesti dell’eroe, del protagonista, dell’angelo vendica-tore, del deus ex machina che arriva dal cielo e risolve ogni cosa, ma io non sono all’altezza, mi manca la stoffa ... Sì, credo che ci sia stato uno sbaglio, un tragico malinteso. Io non sono Oreste. Non posso essere Oreste. Io sono un poveraccio, senza arte né parte, incapace di assumere un ruolo qualsiasi, figuriamoci quello di Oreste! No. non posso entrare in nessuna parte. Ho come un fuoco in petto. Non posso stare da nessuna parte. Devo correre, correre, scappare ... Sempre, da tutto e da tutti. Non posso stare fermo mai. Non posso restare. Non posso salire quelle scale. Un’ombra mi perseguita, m’insegue, mi bracca, m’impedisce di fermarmi, di restare. La mia ombra ... l’ombra del padre ... l’ombra della tragedia pende sulla mia testa. Pende sulla mia testa una spada di Damocle. Appare davanti ai miei occhi, come una allucinazione, come il rimorso di un’azione mai compiuta, nel delirio, come il pugnale di Macbeth, nella notte, in questa interminabile notte, in questo sogno, in questo incubo ad occhi aperti - appare davanti ai miei occhi, come un ologramma, visibile ma inafferrabile, correlativo oggettivo del mio tragico destino - mi appare davanti agli occhi questa spada di Damocle che pende sul mio destino, quest’ombra tragica sulla mia vita, questa spada di Sofocle, questa scure a doppio taglio che Eschilo, Sofocle, Euripide, come dee della vendetta, o del destino, mi pongono davanti, mi offrono, m’impongono - questa spada, questa scure a doppio taglio che io non posso afferrare, non posso brandire, non posso sollevare - questo peso, questo destino tragico che io non posso sopportare ... Il fatto è che ho paura di tutto, di me stesso, della mia ombra, dell’ombra - dell’ombra che è dentro di me - di quello che è in ombra dentro di me e che potrebbe venire alla luce - dell’ombra del destino che incombe su di me - di quest’ombra che mi circonda, popolata di spettri - delle cagne della notte che popolano quest’ombra ... Le cagne della notte m’inseguono, mi braccano, mi stanno alle calcagna, non mi danno mai tregua. Vedo le loro pupille, le loro zanne scintillare nell’ombra. Se ne stanno in agguato, pronte a saltarmi alla gola, non appena farò un passo falso. Devo stare in guardia. Devo restare immobile, completamente immobile. Ogni falso movimento potrebbe scatenare la loro ferocia. Ogni azione potrebbe provocare la loro reazione. Quindi me ne starò qui, fermo, immobile. In attesa che si dimentichino di me e mi lascino in pace ... Tutti, tutti quanti si devono dimenticare di me, devono lasciarmi in pace ...

LEI :    Oreste? Oreste, dove sei?

LUI :    ... Me ne sto qui, fermo, immobile, in attesa che si dimentichino di me, e mi lascino in pace ...

LEI :    Oreste? Oreste, dove sei?

 

 

Il sogno

 

Lei, seduta al centro della scena, indossa vistosi occhiali neri. Lui è in piedi alle sue spalle.

 

LEI :    Oreste ...

LUI :    Dimmi, Elettra.

LEI :    Oreste, non so dove ti trovi in questo istante ...

LUI :    Sono qui, Elettra. alle tue spalle.

LEI :    ... ma so che comunque puoi sentirmi, perché il legame che ci unisce è più forte del tempo e dello spazio ... E non si tratta soltanto del fatto che siamo fratelli, ma piuttosto della comune tragedia che la sorte ci ha assegnato come destino individuale, così che la mia vita qui e adesso, di vittima incatenata, non fa che rispecchiare fedelmente la tua vita altrove, fratello, di vittima braccata dalla furia del rimorso ... Per questo adesso sono qui che ti parlo, Oreste, sono qui che parlo con un fantasma ... E non m’importa se la gente che mi guarda crede che io sia pazza ... E non m’importa neppure se il dubbio balena anche nella mia mente, di tanto in tanto, che tu sia morto in qualche paese sconosciuto e che io sia davvero soltanto una povera pazza che aspetta il ritorno di un fantasma ... Non importa, Oreste ... Anche questo dubbio fa parte del gioco; anche tutto questo rientra nella parte che la sorte mi ha assegnato e che io comunque devo in qualche modo sostenere ... Ascoltami, Oreste, questa notte ho fatto un sogno che ti devo raccontare. C’era un uomo che tornava a casa dopo tanto tempo, e la moglie sulla porta che lo aspettava. L’uomo aveva gli occhi stanchi, dimessi; i capelli, la barba, e i peli sul petto erano bianchi, come quelli di un agnello indifeso. La donna aveva gli occhi feroci, il muso lungo, e i denti affilati come quelli di un lupo affamato. Dietro la porta, nell’ombra, un’altra presenza: quella di uno sconcio sciacallo in agguato. Il povero agnello non si avvede del pericolo che l’attende, e varca la porta tranquillo ... Segue un silenzio irreale, che dura un interminabile istante ... poi, d’un tratto, il silenzio è infranto dal belato straziante del povero animale dilaniato ... E dalla porta escono le due belve con le fauci ancora sporche di sangue, e la pelle del povero agnello buttata sulle spalle. La gente per la strada applaude e grida di gioia, come si fosse ad una festa nuziale ... E in effetti la lupa e lo sciacallo improvvisano sulla strada principale del paese un grottesco corteo in cui lei esibisce la pelle dell’agnello scannato come se fosse un bianco vestito da sposa, mentre lui la indossa come se fosse una stola regale ... A questo punto il sogno si è interrotto ... probabilmente ho sentito un rumore, o qualcosa d’altro mi ha distratto ... Il fatto è che io qui non dormo mai, sebbene sia sempre notte - una lunga, interminabile notte in cui sono costretta a vegliare nell’attesa del suo ritorno - così i miei sogni sono sogni ad occhi aperti, che il più minuscolo e fortuito accadimento esterno può facilmente interrompere ... Si tratta per lo più di sogni ricorrenti, sogni che si ripresentano continuamente alla luce della mia memoria, e che non si concludono mai ... sogni interrotti, sogni sognati nel breve lampo (o)scuro d’un batter di ciglio, e ricordati per sempre ... sogni ossessivi, ossessionanti ... sogni simbolici, naturalmente ... sogni maledettamente, spudoratamente simbolici! Sogni ridicoli ... grotteschi e inquietanti ... che rappresentano sempre la medesima scena, ma con sempre nuovi travestimenti ... scherzi crudeli della memoria ...

 

 

 

La memoria I

 

Lei brancola nel buio come una cieca. Lui se ne sta seduto al centro della scena con la faccia sprofondata nelle mani.

 

LEI:     (brancolando) Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     (lamentandosi) La testa mi scoppia ... Ah, la memoria, maledetta memoria! Almeno ricordassi qualcosa ... qualcosa, qualsiasi cosa ... un particolare insignificante, un posto, un nome ... un nome qualsiasi ... un appiglio ...

LEI:     (c.s.) Oreste, dove sei?

LUI:     (sforzandosi di focalizzare) Mi sono ritrovato in cima a una rampa di scale con in mano qualcosa ... un’arma, credo ... forse un pugnale, o qualcosa del genere ... Non ricordo esattamente cosa ... L’ho scagliata lontano da me, come per un moto improvviso d’orrore ... O almeno così mi pare .. Come se il contatto con il freddo di quell’arma mi avesse scottato ... (scuotendo il capo) Non ricordo nient’altro ... Non so da dove venissi, né dove andassi ... Per quale motivo avevo tra le mani quell’arma - sempre ammesso che davvero fosse un’arma? (con un lieve soprassalto) Ora che ci penso, mi pare che quel pezzo di ferro fosse sporco di sangue - forse per questo l’ho scagliato lontano con orrore ... No, non sono sicuro neppure di questo ... (scoraggiato) Tutto è così maledettamente confuso nella mia testa! (scuotendo di nuovo il capo, sconsolato) No, non sono affatto sicuro che quel pezzo di ferro fosse sporco di sangue ... Forse è solo la mia immaginazione ... I miei nervi scossi, la mia scoperta sensibilità ...

LEI:     (c.s.) Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     Forse ho solo immaginato che fosse sporco di sangue ... (folgorato da un’idea improvvisa) Come se in un lampo della coscienza avessi scorto, in quel particolare immaginario, tutto l’orrore di quello che andavo a fare, e per questo l’avessi scagliato lontano ... (scuotendo nuovamente il capo) Non so ... Non sono sicuro neppure di questo ... Insomma, che cosa ha provocato in me quel moto di stizza improvviso e violento? Si è trattato di rimorso o di vigliaccheria? Quel sangue era vero, reale, o solo premonizione, fantasia? Sempre ammesso, beninteso, che quello che stringevo tra le mani fosse davvero un’arma. Sempre ammesso che davvero stringessi qualcosa tra le mani ... poiché neppure di questo posso essere certo ... Di quella cosa, di quell’oggetto non è rimasto nulla nelle mie mani ... Solo una vaga sensazione, riaffiorata per un istante sulla punta delle dita, come una memoria tattile: il freddo di un oggetto di ferro a contatto con il palmo delle mie mani ... Nient’altro ...

 

 

La memoria II

 

Lei brancola nel buio come una cieca. Lui se ne sta seduto al centro della scena con la faccia sprofondata nelle mani.

 

LEI:     (brancolando) Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     (scuotendo il capo sconsolato) Inutile ... tutto inutile! Conficco il mio pensiero con foga e con costanza, come un chiodo, nella tavola piatta e levigata della mia memoria ... Il sangue mi pulsa alle tempie, la testa mi scoppia ... Mi spremo le meningi fino in fondo, come un limone, ma nulla! E’ tutto inutile. Il succo che ne fuoriesce ha l’aspro sapore di una vita vuota, senza significato ... Sfila davanti ai miei occhi chiusi un interminabile corteo di maschere senza volto, di cose e persone senza nome, di fatti e misfatti senza significato ... Brandelli di una vita che non riesco a ricucire, frammenti sparsi che ... no, non riesco (più) a connettere ... relitti alla deriva, dopo il naufragio ...

LEI:     (c.s.) Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     (lo sguardo perso nel vuoto) Non so più nulla, no ... Non sono più nulla! M’aggiro tra le tenebre come un fantasma ... Brancolo nel buio di una coscienza perduta, dimenticata ... Non sono più nulla, no ... Nulla, nessuno ... Neppure l’ombra di un sogno ... Non sono più nulla, e più nulla possiedo. Neppure un nome ... no. nulla ... Neppure un nome qualsiasi ... Neppure un accostamento casuale di suoni senza significato ...

LEI:     (.c.s) Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     (con semplicità) Mi ritrovo seduto qui, su questa sedia, con la testa tra le mani, nel bel mezzo della scena, come un povero attore che all’improvviso si è scordato la parte e non sa più che pesci pigliare ... Gli spettatori se ne stanno lì davanti, con la bocca spalancata, pronti ad abboccare ... E io qui, davanti a loro, davanti a quell’unica, enorme bocca spalancata, davanti al vuoto del boccascena ... Sorrido con naturalezza, allungo una mano nel cesto che tengo alle mie spalle, tasto e ritasto, e scopro, con orrore, che è vuoto! Completamente vuoto! Nessun amo, nessuna lenza, nessuna esca: niente! Niente di niente! Nessuna possibilità di far abboccare niente o nessuno. Il panico mi afferra. Si apre una falla, una crepa nel terreno, una voragine che si allarga ai miei piedi, sempre più rapidamente, un abisso che dilaga e mi vuole risucchiare, un fossato che si scava tra me e gli spettatori, una barriera, una muraglia di gelo e di silenzio ... E io niente! Non trovo niente da dire! Niente di niente! Un enorme, incolmabile vuoto di scena si spalanca sotto di me ...

LEI:     (.c.s) Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     (in preda all’angoscia) Che posso fare? Maledizione! Che posso fare? Non mi resta che aprir bocca e darle fiato! Sparare a mitraglia, una dopo l’altra, qualunque stronzata mi passi per la mente, senza fermarmi a pensare, senza riflettere, senza freni, senza reticenze, senza discriminare, senza tempo per scegliere, per distinguere ... Qualunque cosa pur di sfuggire a quel vuoto che dentro mi divora! Correre giù a perdifiato, sul filo delle parole, delle libere associazioni, a ruota libera, a perdifiato, a precipizio, sperando così di salvarmi dalla rovina di una caduta di tono ... ma senza rendermi conto che in realtà è proprio questo ciò che sto interpretando: una caduta! Una spaventosa, precipitosa, irrefrenabile caduta rovinosa ...

LEI:     (.c.s) Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     (cambiando di tono) Certo dev’esserci stato un tempo felice in cui le persone come me sapevano che cosa dire. Avevano un copione preciso, una parte, un ruolo ben definito da recitare ... un nome ... Proprio così. Sembra incredibile di questi tempi, ma allora quasi sicuramente le persone come me avevano persino un nome! Un nome preciso, ben definito, riconoscibile. E una storia. Soprattutto una storia. Un passato da raccontare, un presente da vivere, e un futuro da sognare ... Ma forse mi sbaglio. Forse sto generalizzando. Chissà! Forse ce ne sono ancora di persone come quelle di un tempo: eroi tragici tutti d’un pezzo, con un nome, una storia e una destino inequivocabili, senza nessuna possibilità di confondersi o contraddirsi: treni che corrono via veloci sulle loro rotaie e non deragliano mai ... Quanto a me, invece ... Ebbene, signori miei, diciamolo pure chiaramente, io sono ...

LEI:     (.c.s) Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     (sospirando) Eh, sì! Io sono un pover’uomo senza memoria. Ecco, signori miei, è questa la tragica verità. Io non sono nessuno. Sono un poveraccio senza nome e senza memoria ... Senza faccia e senza storia ... Semplice, no? Un’ombra ... Un sogno. L’ombra di un sogno. Tutto qui. E questo, mi pare, spiega ogni cosa. Anche l’amarezza che provo ora dinnanzi a questa semplice ma dolorosa verità. Darei qualsiasi cosa pur di essere un eroe di quelli di una volta, il personaggio di una tragedia classica. Mi accontenterei di essere un comprimario, persino una comparsa, pur di avere un destino preciso, ben definibile, inquadrato in un disegno più vasto, un destino intrecciato ad altri destini in una trama più grande, un destino che procede, si sviluppa, si complica, si aggroviglia sempre di più fino allo scioglimento finale ... Insomma, essere un eroe tutto d’un pezzo, con un ruolo preciso, comprensibile, riconoscibile, un personaggio con una storia alle spalle, una storia fissata una volta per tutte, nero su bianco ... Una storia su carta bollata, scritta, sottoscritta e vidimata ... Già, ma per tutto questo ci vorrebbero dei ricordi: non questi vaghi, inafferrabili barbagli di luce nel buio, ma una solida teoria di avvenimenti articolati che insieme costruiscano il mio passato, informino il mio presente, e determinino il mio futuro. Una rete di associazioni mentali pesanti come pietre in cui il mio spirito possa vagare e ritrovare se stesso ad ogni svolta, un crogiolo in cui forgiare di volta in volta il mio umore. Ma, senza ricordi ... Senza ricordi tutto questo diviene solo un sogno, la fuggevole ombra di un sogno ... Forse il ricordo di qualcosa che un tempo potrei non essere stato ...  Qualcosa di inaudito, paradossale ... Qualcosa come il ricordo di un pover uomo senza memoria!

 

 

La memoria III

 

Lei brancola nel buio come una cieca. Lui se ne sta seduto al centro della scena con la faccia sprofondata nelle mani.

 

LEI:     (brancolando) Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     (sollevando lo sguardo) Sì, sono un uomo senza memoria ... No, non si tratta di un’iperbole. Non voglio dire, insomma, di essere uno che ha poca memoria. No, no. Io sono un poveraccio completamente senza memoria: è tutta un’altra storia, mi pare ... No, non si tratta neppure di una metafora. Non è mia intenzione alludere né a una qualche fantomatica assenza di coscienza storica, né a un’ipotetica crisi culturale. No, no. Non intendo alludere a nulla di emblematico o di particolarmente significativo per la collettività. Non è affatto questo il mio intendimento. Quello che voglio dire è che si tratta, semplicemente, di un dato auto-biografico, un marchio indelebile impresso dalla vita sulla mia pelle, una notizia indispensabile per poter decifrare i geroglifici bizzarri della mia sorte: tutta la vita ho vissuto letteralmente senza memoria. Ecco tutto. Questa assenza è sempre stata l’unica mia esclusiva, paradossale caratteristica individuale. Ammesso che si possa definire caratteristica individuale una tale infamia che sottrae ogni reale possibilità di essere davvero un individuo. E’ questo il paradosso che. da sempre mi affossa e mi sostiene. Come può un pover’uomo senza memoria essere anche,. al tempo stesso, un individuo?

LEI:     (c.s.) Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     (spiegandosi) Le qualità e i difetti di un uomo senza memoria sono esperienze del tutto estemporanee: Un giorno egli è buono, paziente, generoso ... Ma il giorno appresso? Il giorno appresso egli avrà del tutto scordato, in un angolo buio e sperduto del suo cuore, le ragioni che lo avevano indotto ad incarnare quelle qualità, e così si comporterà in modo del tutto differente. Il suo umore, il suo sentimento sarà mutevole come un cielo di marzo. Dimenticherà, allo stesso modo, i torti subiti e i favori ricevuti. Si dimostrerà, nella stessa giornata, un uomo di gran cuore e un ingrato. Sarà una povera foglia morta portata a spasso dal vento.

LEI:     (c.s.) Oreste!

LUI:     (sospirando) L’assenza di memoria è l’unica caratteristica che lo distingue dagli altri eppure, al tempo stesso, proprio ciò che gli impedisce di affermarsi come individuo tra gli altri! Eh, si? Proprio così ... Poiché l’assenza di memoria è peggio di un difetto. Un difetto, nel bene o nel male, è qualcosa di concreto, tangibile, qualcosa che gli altri possono riconoscere. Attraverso un difetto gli altri possono in qualche modo riconoscerti, individuarti. Tu stesso puoi porti in relazione con esso: puoi accettarlo, ignorarlo, combatterlo. In questo modo, attraverso questa scelta, assumi ai tuoi stessi occhi un ruolo, un significato. Nel bene o nel male diventi qualcuno, un preciso individuo che si distingue per la sua volontà di accettare, ignorare, oppure combattere un certo difetto. Qualcuno dirà: «Ecco, lo vedi quello? Quello è uno stronzo» Oppure: «Quello è un gran figlio di puttana» E un altro gli risponderà: «Sì, d’accordo. Però lo sa benissimo di esserlo: anzi, lo fa apposta» Oppure: «Sì, ma, poveretto, non è mica colpa sua!» «Già, ma qualcuno prima o poi dovrà dirglielo in faccia, così la pianta» Eccetera, eccetera, eccetera ... Comunque sia, stronzo impenitente, o foglio di puttana inconsapevole, egli è qualcosa, esiste per gli altri, gli altri sono in grado di identificarlo, possono parlare di lui: «Sai? Ieri ho incontrato Tizio» «Tizio, chi, scusa?» «Ma sì, Tizio! Non lo conosci? Quello stronzo così e così, eccetera, eccetera ...» «Ah, sì! Adesso ho capito: quello stronzo di Tizio!» Appunto. Ma un uomo senza memoria? Un uomo senza passato, senza ricordi, senza la minima possibilità di coltivarsi neppure un minuscolo difetto, come potrà mai conquistare un posto qualsiasi, un ruolo, un significato nella società? Come potrà mai essere riconoscibile, riconosciuto? Come potrà mai essere qualcuno?

LEI:     (c.s.) Oreste, dove sei?

LUI:     (sconsolato) No. Un uomo senza memoria non può aver nessun altro difetto o qualità. L’assenza di memoria è una caratteristica esclusiva: chi la possiede non ne possiede altre.

LEI:     (c.s.) Oreste!

LUI:     (illuminandosi per un istante) Forse allora quello che qui, ora, sto tentando di fare è di affermare comunque, nonostante tutto, la mia individualità. La mia esistenza.

LEI:     (c.s.) Oreste! Oreste, dove sei?

LUI      (risoluto) Volete sapere chi sono? Io sono un uomo senza memoria. Ecco tutto. E me ne vanto.

 

 

La verità

 

Lei è in piedi, sul fondo della scena, appoggiata al muro di fondo, affranta. Lui seduto in proscenio, pacato, controllato.

 

LEI:     Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     Oreste è morto. E’ questa la tragica verità. Tutto il resto è solo favola, letteratura. Ha percorso l’adolescenza in un lampo, correndo come un acrobata sul filo verso il baratro della sua fine, ben sapendo che prima o poi sarebbe caduto, precipitato nel vuoto. Così quando questo è accaduto l’unico a non stupirsi è stato proprio lui stesso. La morte l’ha accolto a braccia aperte e lui s’è lasciato andare con dipinto sulle labbra il suo solito imperturbabile sorriso, che pochi hanno inteso come tale e molti invece come spasimo di terrore ...

LEI:     Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     Ma forse, chissà, forse neppure adesso la sua sorte è mutata. Forse anche adesso, nel regno delle ombre, continua la sua inarrestabile fuga. Forse per questo sorrideva mentre precipitava nel vuoto ... Un sorriso amaro ... Il sorriso di chi sa che quella caduta altro non è che una breve sospensione, un fiato rubato nel suo infinito calvario di maratoneta in apnea ...

LEI:     Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     E che dire di sua sorella Elettra? Il suo destino è altrettanto penoso. Condannata ad una interminabile attesa, così come lui ad una fuga senza fine. Ma chi mai potrebbe dirle la verità? Chi mai potrebbe gridarle in faccia che Oreste è morto? Chi mai potrebbe strapparle così ferocemente dal cuore l’ultimo timido bagliore di speranza?

LEI:     Oreste! Oreste, dove sei?

LUI:     (gridandole in faccia) Oreste è morto; spacciato; crepato e seppellito! (sottovoce, come se niente fosse) E’ questa la tragica, inconfessabile verità. Ma chi mai potrebbe anche solo sussurrarla al suo orecchio; ed infrangere così irrimediabilmente il fragile, precario equilibrio su cui si regge l’intera sua povera esistenza?

LEI:     Oreste! Oreste, dove sei?

 

 

Il riconoscimento

 

Lei è seduta al centro della scena. Indossa vistosi occhiali neri da cieca. Lui è in piedi alle sue spalle e indossa una maschera qualsiasi.

 

LUI :    (si schiarisce la voce)

LEI :    Oreste?

LUI :    (tossisce)

LEI :    Oreste, sei tu?

LUI :    (tace)

LEI :    Oreste, davvero sei tu?

LUI :    (tace)

LEI :    Ti prego, Oreste, rispondimi ...

LUI :    (tace)

LEI :    Avvicinati, Oreste... lascia che io ti tocchi ...

Lui si avvicina, si china su di lei. Lei, con molta cautela, gli legge i tratti del volto con la punta delle dita.

LEI :    ... Lascia che le mie mani accarezzino il tuo volto e leggano su di esso i segni lasciati dal dolore, i segni che ci rendono fratelli ...

Lui si è inginocchiato, ha reclinato il capo; e con questo movimento ha sfilato la testa dalla maschera che indossava, la quale è rimasta nelle mani della sorella. Lei continua imperterrita rivolgendosi alla maschera che tiene tra le mani ed accarezza, come se si rivolgesse al fratello. Lui che fa? Forse resta, spettatore immobile della scena; forse scappa via; forse fa qualcosa d’altro (una «contro-scena»)

LEI :    ... Povero fratellino mio, quante ne abbiamo passate, eh! ... e quante ancora ne dovremo passare! Non ti pare? E che peso questa nostra tragica esistenza,  vissuta qui o altrove (non importa dove) ... fatta di interminabili attese disumane e spasmodiche che dividono l’una dall’altra rapidissime azioni  spasmodiche e disumane ... No, non piangere, povero fratellino mio ... Bisogna essere forti in un’ora come questa ... Soprattutto tu, fratellino mio, devi essere forte, più forte della morte, più forte della cattiva sorte ... Figurati che c’era gente che diceva che tu eri morto, caduto, schiacciato, deceduto in qualche brutto incidente ... Ma io non ci ho mai creduto ... Figurati! Tu, morto ... impossibile! Era una assurdità, non credi? Tu, morto, alla tua età! L’ho capito subito che si trattava d’un’invenzione. No, tu non potevi essere morto prima di aver portato a termine la tua missione ... non è vero? No, tu non potevi essere morto prima di aver compiuto l’azione ... C’era un rito da fare ... un mito da avverare ... E’ per questo, non è vero, che sei tornato? Non è vero Oreste?

LUI :    (tace)

LEI :    Oreste? (si accorge all’improvviso di avere tra le mani una maschera vuota e non il volto del fratello; scaglia la maschera per terra, poi si alza brancolando, le mani protese in avanti come a cercare di afferrare un’ombra, l’ombra del fratello, che le sfugge) Oreste!! Oreste, dove sei? (piagnucolando) Oreste, ti prego, ritorna! E’ tutta la vita che ti aspetto ... Oreste, ti prego! Oreste, ovunque tu sia, ascoltami ...

LUI :    Sono qui.

LEI :    Oreste, ti prego, ascoltami ...

LUI :    Ti ascolto.

LEI :    Non so quanto tempo potrò resistere ancora ... La mia vita trascorsa nella notte dell’attesa è ormai consumata come un mozzicone di candela ... La mia mente, costretta ogni notte a ricordare l’orrore, vacilla come la fiamma di una candela consumata ... La mia vista, sforzata ogni notte a scrutare nelle tenebre, si è consumata, si spegne ... Oreste, ti prego, ritorna! Sono stanca di parlare da sola. Ho bisogno di te! Ho bisogno di qualcuno con cui parlare!

LUI :    (dolcemente) Sono tornato, Elettra. Sono qui.

 

 

Il riconoscimento II

 

Lei è seduta al centro della scena, indossa occhiali scuri da cieca. Lui è in piedi, alle sue spalle, indossa una maschera.

 

LEI :    Oreste?

LUI :    Sì?

LEI :    Oreste, sei tu?

LUI :    Sì, sono io.

LEI :    Oreste, davvero sei tu?

LUI :    Sì ... credo di sì ...

LEI :    Avvicinati, ti prego ... lasciati toccare...

Lui si avvicina. Lei gli legge i tratti del volto con la punta delle dita ...

LEI :    (strappandogli la maschera dal viso) Tu non sei Oreste! Tu sei un impostore! Che cosa vuoi da me? Volevi ingannarmi? Tu volevi prenderti gioco di una povera ragazza nelle mie condizioni ... Vergognati! Tu non puoi essere Oreste. Oreste è un tipo sincero, non ingannerebbe mai una povera ragazza nelle mie condizioni, non si prenderebbe mai gioco di una come me ... (urlando come un ossesso) Vattene!!! (dopo una pausa, con tono pacato) Te ne sei andato?

LUI :    Sì.

LEI :    Meno male. Capita sempre così. Ogni tanto si presenta qui qualcuno dicendo di essere Oreste. E’ incredibile quanto la gente possa essere bugiarda e sfacciata! Di solito si tratta di piccoli imbroglioni da quattro soldi, truffatori di piccolo cabotaggio, cacciatori di eredità, o anche solo poveri ladruncoli in cerca di identità. Non è detto infatti che questa marmaglia sia necessariamente a caccia di danaro. Talvolta capita anche solo qualche disperato che cerca semplicemente un nome, una casa, un posto dove fermarsi e rifarsi una vita, un ruolo qualsiasi da giocare in una storia qualsiasi ... Si aggirano nel mondo come cani segugi randagi, con la lingua penzolante e il naso bagnato che annusa dappertutto; non appena fiutano nelle chiacchiere della gente, in un libro, o in un giornale, che da qualche parte s’è aperta una falla, che qualcuno è partito, morto, o dato per disperso, che insomma c’è un posto vacante da qualche parte, si precipitano a gambe levate e raccontano storie incredibili di viaggi, di morti e di resurrezioni: farebbero qualunque cosa pur di ottenere una parte, una parte qualsiasi in una qualsiasi vicenda, in luogo di quell’oscuro anonimato in cui sono costretti a trascinare le loro misere esistenze. Io li capisco e li compatisco. Ma che posso farci? Le loro facce sono tutte eguali, pallide, smorte, come quelle di cadaveri, senza espressione. Nei loro occhi non guizza la scintilla della vita, non arde il fuoco della verità: sono falsi e bugiardi. E’ incredibile le favole che raccontano, e le prove che portano a sostegno della loro presunta identità! Qualcuno porta una ciocca di capelli biondi e pretenderebbe di essere Oreste solo perché ha i capelli del mio stesso colore! Qualcun altro mi mostra una cicatrice sul sopracciglio, oppure un anello, un sigillo che sarebbe appartenuto a nostro padre, o qualcos’altro del genere. Un altro ancora vorrebbe farsi riconoscere per via dell’abito che indossa, il quale, a suo parere, sarebbe lo stesso che indossava quando è scappato da qui, e che io stessa gli avevo tessuto; peccato solamente che la taglia del vestitino dell’Oreste-bambino di allora non possa corrispondere granché alla taglia del vestito di quest’altro presunto Oreste di ritorno, decisamente più cresciutello! Ma il più assurdo di tutti è stato un tale che si è presentato qui un giorno, e che pretendeva di essere riconosciuto per via un’una irrefutabile prova PO-DO-LO-GI-CA! «Vedi?», mi diceva indicando le nostre impronte sulla sabbia, «lasciamo le stesse impronte, della stessa grandezza, della stessa forma! Abbiamo lo stesso numero di piede!». Sono uomini senza nome e senza faccia. Sono cadaveri che camminano e che raccontano solo menzogne. No! Oreste non può essere così, Oreste non può essere uno di loro, Oreste è diverso ... Talvolta capita anche che qualcuno di costoro mi colpisca particolarmente e mi faccia dubitare ... mi guarda fisso negli occhi, la voce gli trema, ma non per la paura di essere smascherato, bensì per la trepidazione di essere riconosciuto. Non c’è ombra di menzogna nei suoi occhi quando mi dice di essere Oreste, non s’inventa nessuna storia, e i suoi occhi non sono affatto quelli di un morto. C’è qualcosa che brilla nel suo sguardo, come una febbre. Egli mi ripete piano, con voce penetrante: «Sì, sono Oreste», e si vede che è in buona fede. E’ commosso, versa calde lacrime, e anch’io con lui; mi racconta di quando le mie mani di sorella lo hanno affidato alle cure del vecchio per metterlo in salvo, poi mi racconta tutto quello che gli ha raccontato il vecchio, e le loro disavventure in giro per il mondo, la pena dell’esilio e della lontananza, la speranza che col suo ritorno possa rimettere ogni cosa a posto, e l’angoscia che lo attanaglia dinnanzi all’estrema decisione che lo attende ... Mi dice tutto questo e mi abbraccia fraternamente, ed io non evito l’abbraccio di questo povero sconosciuto, e non mi rifiuto di piangere insieme con lui calde lacrime; ma tra le lacrime, dolcemente gli dico: «Vattene, tu non sei Oreste ... tu non puoi essere Oreste». Allora egli mi guarda per l’ultima volta dritto negli occhi, prima di scomparire di nuovo nel nulla; e io vedo che quello che prima avevo scorto brillare nei suoi occhi, come una febbre ... e io vedo che quella scintilla di follia che prima brillava nei suoi occhi, come una febbre, ora s’è spenta ...

 

 

Il riconoscimento III

 

Questa scena consiste di tre sole battute da ripetersi (nell’ordine) un numero a piacere di volte, avendo l’accortezza di ripetere la prima e l’ultima battuta (recitate entrambe da lei) sempre con la medesima intonazione, e di variare invece sistematicamente l’intonazione della seconda battuta (recitata da lui).

Lei è seduta al centro della scena. Lui in piedi alle sue spalle.

 

LEI :    Chi sei, straniero?

LUI :    Oreste ... io sono Oreste ...

LEI :    No, tu non puoi essere Oreste. Questa non è la voce di Oreste. (Pausa) Chi sei straniero? (ecc.)

 

 

La noia

 

Lui e lei giocano a tris con un gessetto rosso sul muro di fondo della scena. Ad un certo punto lei si stanca e va a sedersi sulla sedia al centro della scena. Lui continua a disegnare qualcosa sul muro.

 

LEI :    (sbadigliando) Che noia! Qui non succede mai niente. Sono anni che me ne sto qui seduta ad aspettare che succeda qualcosa, ma ... niente! Qui non succede mai niente! Sì, daccordo, mio padre è stato ucciso ... è stato ucciso da mia madre ... figuriamoci! Una cosa tutta in famiglia ... Ma è passato tanto di quel tempo! E dopo di allora non è più successo niente, niente di niente! E prima che succeda qualcosa d’altro bisognerà aspettare che arrivi Oreste ad ammazzare la madre. Nel frattempo me ne sto seduta qui, ad aspettare, sospesa tra quello che è accaduto e quello che dovrà accadere, in bilico tra passato e futuro, in questa terra di nessuno, nel vuoto di questo tempo morto. E’ questo il mio destino. E’ questa la tragedia che consuma la mia vita: qui non succede mai niente. Se succede qualcosa succede sempre altrove. Altrove nel tempo o nello spazio. Ma poi chi ci assicura che succeda veramente? Chi ci assicura che davvero mio padre sia stato ucciso da mia madre? Chi ci assicurerà che mia madre verrà uccisa davvero da Oreste, quando Oreste verrà e varcherà quella soglia? Se accadrà, accadrà altrove, in cima a quelle scale, dietro quella porta. Noi qui non lo possiamo vedere , sapere. Noi qui, al di qua di quella soglia, possiamo soltanto origliare, spiare, spigolare, e cercare d’immaginare, di ricostruire partendo da rumori, dettagli, frammenti di discorsi ascoltati al di qua della soglia quello che accade al di là, o che è accaduto, o che accadrà. Come se la vita - la morte - scorresse altrove e noi ne fossimo esclusi, come relitti, corpi estranei, rifiuti, corpi morti gettati sulla riva, espulsi dal corso della vita. Come se questo posto fosse la spiaggia del nostro naufragio esistenziale. Ce li ho tutti qui, sulla punta delle dita ben fissi nella memoria, gli avvenimenti che hanno scosso o scuoteranno la mia famiglia come improvvise, violente mareggiate: la scomparsa di mia sorella Ifigenia e la partenza di mio padre; il ritorno di mio padre, la sua morte e la fuga di Oreste; il ritorno di Oreste, la morte di mia madre, e la nuova fuga di Oreste. Tre tempeste piombate su di noi improvvise, violente, e rapidamente svanite nel nulla. E io lì, ferma, immobile, come pietrificata, dinnanzi a quelle esplosioni attese - inattese - di vita - di morte, in piedi, dritta sul molo, come pietrificata, dinnanzi a onde alte e spaventose come montagne che s’innalzavano all’improvviso dal mare apparentemente calmo e si scagliavano contro la mia famiglia, strappando ogni volta qualcuno dalla riva o qualcun altro ributtando come naufrago o come relitto ... Io che più di tutti scalpitavo nell’attesa, io che ogni mattina correvo per prima giù al molo per guardare se qualche nuvola nera si profilasse all’orizzonte, io che sola fra tutti ricordavo la tempesta passata e facevo progetti per quella futura ... mai sfiorata poi dal corso vorticoso degli eventi, incapace di muovermi, non destinata a muovermi nel momento dell’azione, emarginata qui fuori, condannata a restare al di qua, costretta nel dubbio, nell’incertezza, in questa attesa eterna, che non si risolve ... Meglio vivere o morire, meglio giocare alla roulette russa col destino al di là di quella porta, che restare qui incatenata, sospesa, né viva né morta in questa terra di nessuno, fuori dal tempo e dallo spazio, in questa condizione lacerante, in questa situazione angosciante, in questa posizione alienante!! Qui, aspettando che arrivi qualcuno, aspettando che succeda qualcosa qualcosa che tanto poi succederà altrove e per mano altrui ... insomma aspettare che arrivi qualcuno che subito ripartirà senza neppure un saluto, dopo aver fatto quello che deve fare, mentre io sarò qui fuori come sempre senza sapere, senza avere la certezza, condannata ad immaginare ... E’ questa mancanza di certezze la tragedia che mi consuma. E’ questa condanna a fantasticare la vera tragedia che mi attanaglia, questa condanna a danzare come un’acrobata su di un filo invisibile che unisce frammenti di ricordi, intuizioni, speranze, ipotesi, mentre la realtà si confonde ai sogni e mi costringe in uno stato di continuo delirio, in cui ogni visione può essere ad un tempo verità ed allucinazione. E’ terribile, davvero terribile, non sapere più che cosa pensare di quello che si vede o si sente, non potersi più fidare delle proprie sensazioni, ed essere costretti a vivere in questo universo esclusivamente mentale, rinchiusi qui dentro, come uccelli in gabbia, in un labirinto di specchi deformanti e di ologrammi! Ho visto un’ombra scivolare su per quelle scale, a metà s’è fermata, m’ha lanciato uno sguardo: mi sembravano gli occhi di Oreste. Gli ho chiesto chi fosse, mi ha risposto in un sussurro che era lui, che era Oreste. Ha indugiato un istante, e poi è svanito, inghiottito dalla porta in cima alle scale. Adesso io sono qui, come pietrificata, che conto mentalmente i suoi passi lungo il corridoio, lo seguo mentalmente nel tragitto che dalla porta d’ingresso lo conduce, tra scale, stanze e corridoi, fino alla stanza della madre, fino a quell’ultima porta, fino alla mano che si alza impugnando l’arma del matricidio, fino all’urlo straziante della madre trucidata ... Ma in questo lasso interminabile di tempo sono assalita da uno sciame di dubbi che s’intasano tra un istante e l’altro dell’attesa e la dilatano, la gonfiano, la lacerano, la frammentano, la polverizzano ... Ogni istante risulta pieno d’infiniti istanti, poiché infiniti sono i dubbi che in ogni istante si affollano nella mia mente: era davvero un uomo quell’ombra che ho visto sulle scale? davvero ha varcato quella porta? e poi, davvero si è avviato verso le stanze della madre? davvero avrà intenzione di ucciderla? e se anche ne avesse l’intenzione, davvero lo farà, dopo che avrà incrociato i suoi occhi, dopo che lei lo avrà supplicato di perdonarla? Ma davvero era Oreste quell’ombra che ho visto sulle scale, oppure era un servo, oppure era un ladro, oppure un impostore, oppure la mia fertile immaginazione? E se davvero fosse stato Oreste, perché non ho ancora sentito il grido di morte della madre? oppure l’ho già sentito? Oppure era di Oreste, quel grido che ho sentito, di Oreste caduto in una imboscata, oppure di Oreste che scappa via disperato, perché davanti alle suppliche della madre non ha avuto il coraggio? E’ questa la mia tragedia: essere qui fuori, costretta a ricostruire quello che accade da minuscoli indizi, ricostruire un mosaico da tessere sparse, senza avere la certezza che quello che dico, che immagino, che ipotizzo sia accaduto davvero, e che sia corretto il senso che attribuisco ad ogni indizio ... essere spettatrice di qualcosa che accade altrove, spettatrice di qualcosa a cui non posso assistere, basandomi su indizi di cui non posso essere certa ... Tutto questo è terribile, e al tempo stesso, anche estremamente noioso. Ogni tensione estrema, ogni attesa la più lancinante, si sa, se viene protratta all’infinito, alla lunga annoia ... (sbadiglia) Certo, se tornasse Oreste sarebbe diverso, potrei chiedergli di fermarsi un po’ qui con me, ai piedi della scala, al di qua della soglia, per giocare a tris, oppure a tresette. Tresette è il gioco preferito da tutta la famiglia, tresette col morto, intendo: qualcuno che faccia il morto non manca mai nella mia famiglia ...

 

 

La rivolta

 

Lei seduta al centro della scena, con indosso occhiali scuri. Lui, alle sue spalle, con indosso un grembiule da macellaio.

 

LEI :    Oreste?

LUI :    Che c’è?

LEI :    Oreste, ascoltami, ovunque tu sia ...

LUI :    Sono qui, dimmi.

LEI :    ... volevo dirti ...

LUI :    Che cosa?

LEI :    ... insomma, Oreste ... (togliendosi gli occhiali) il fatto è che io non ce la faccio più!

LUI :    Come, scusa?

LEI :    Non ce la faccio più. (Si volta per guardarlo) Capisci?

LUI :    (leggermente allarmato) In che senso?

LEI :    Non posso più continuare a recitare questa farsa. Tutto è così terribilmente assurdo. Te ne rendi conto?

LUI :    (fraintendendo) Sono daccordo. E’ ora di finirla! (Si toglie il grembiule e lo getta a terra). E’ già da un po’ che lo pensavo, da qualche scena, ma non sapevo se anche tu eri daccordo ... Insomma tutto questo è francamente assurdo. (Infervorandosi) Ma ti rendi conto? Ce ne stiamo tu lì e io qui, a poco più di un metro di distanza, e non possiamo comunicare! Che senso ha? me lo spieghi? Un metro, dico, un metro di distanza, al massimo un metro e mezzo! E tu che ripeti, come una forsennata: «Oreste, Oreste dove sei?», mentre io sono qui, a un palmo dal tuo naso! Neanche fossi cieca!

LEI :    (si schiarisce la voce).

LUI :    Daccordo, daccordo. Potresti anche essere cieca. Daccordo, ammettiamo pure, allora, che tu sia cieca e che quegli occhiali scuri che indossi stiano proprio ad indicare questo (il che, comunque, sarebbe tutto da dimostrare). Mi spieghi, allora, perché diavolo, quando io ti rispondo chiaramente, inequivocabilmente, con voce impostata: «Sono qui» ... mi spieghi, allora, perché diavolo, tu non puoi sentirmi, né rispondermi, né voltarti, né riconoscermi, né abbracciarmi, né tanto meno parlarmi? Mi spieghi perché? Eh?

LEI :    (si schiarisce di nuovo la voce).

LUI :    (sbalordito, come se lei con quello schiarirsi la voce avesse voluto significare qualcosa di incredibile) No, dico, non vorrai farmi intendere che tu, oltre ad essere cieca, saresti pure sorda, eh? No, dico, perché allora questo sarebbe davvero il colmo!

LEI :    (di nuovo si schiarisce la voce).

LUI :    Daccordo, daccordo. Ammettiamo pure per un istante, per assurdo, dico, solo per assurdo, che tu sia così disgraziata da essere anche sorda, oltre che cieca. Mi spieghi che diavolo significherebbe, in definitiva, tutto questo? Eh? Me lo spieghi? No, dico, insomma, che senso mai potrebbe avere portare sulla scena una povera Elettra handicappata, sorda e cieca contempora-neamente, e un Oreste come me, completa-mente deficiente, che se ne sta impalato alle tue spalle senza fare un bel niente? Eh? Me lo spieghi? No. no, te lo dico io che cosa significa: niente, niente di niente! Ecco che cosa significa tutto questo! Il nulla assoluto, il vuoto spinto! Questa tragedia è una accozzaglia di assurdità, senza alcun significato! Anzi no, ti dirò, non è vero che non significhi nulla, no. Qualcosa significa, certo. Significa che l’autore è un povero malato di mente, un disadattato, un poveraccio che ha perso ogni contatto con la realtà, un pazzo che andrebbe internato, rinchiuso da qualche parte e privato di tutto, ma soprattutto di carta e penna, di matite, di macchina da scrivere, di computer e di qualsiasi altro strumento con cui possa anche solo sognarsi di mettersi a scrivere altre assurdità del genere! Perché è un vero scandalo che si permetta ad un individuo simile anche solo di pensare, dico, di immaginare, o anche solo di progettare di scrivere una tragedia, una farsa, o qualsiasi altra diavoleria del genere! Sì, sono proprio daccordo con te! Non si può continuare a recitare una farsa come questa, così piena di assurdità e senza senso, opera di un autore pazzo, completamente fuori dal mondo!

LEI :    (si schiarisce la voce più rumorosa-mente)

LUI :    E anche il regista, certo! Anche il regista è un pazzo, un pazzo da legare! Soltanto un povero malato di mente, che abbia completamente perso ogni contatto con la realtà potrebbe anche solo immaginare di portare sulla scena una tale accozzaglia di assurdità!

LEI :    (si schiarisce la voce ancor più rumorosamente).

LUI :    E anche noi, s’intende, siamo dei poveri pazzi! Anche noi, che abbiamo accettato di incarnare in qualche modo, coi nostri corpi e con il nostro spirito questi miserabili deliri, queste ridicole amenità ...

LEI :    (c.s., ancor più rumorosamente) ...

LUI :    ... questa robaccia, neppure tanto originale poi, scopiazzata qua e là, già vista e rivista, trita e ritrita ...

LEI :    (c.s., esasperata).

LUI :    (a lei, direttamente, esasperato) Ma insomma, si può sapere che vuoi?

LEI :    (sottovoce, come per non farsi sentire dal pubblico) Voglio che la smetti di dire stupidaggini!

LUI :    (spiazzato) Come?

LEI :    (c.s.) Mai sei impazzito?

LUI :    (abbozzando una timida protesta) Ma...

LEI :    (c.s.) Che diavolo ti salta in mente di rivoltarti così?

LUI :    (protestando) Ma se sei stata tu a cominciare ...

LEI :    Io?!

LUI :    Ma certo, tu ... Hai detto che così non si poteva continuare, che questa tragedia era una farsa, piena di assurdità ... (assalito dal dubbio) Ma, scusa, tu che cosa intendevi dire?

LEI :    Intendevo dire che io, in quanto personaggio, in quanto “Elettra”, non ne potevo più di questa attesa lacerante, dell’incertezza angosciosa in cui sono costretta a tirare avanti ... (come se riprendesse la battuta d’inizio scena) recitare questa farsa atroce che è la mia vita, inchiodata qui, come sono nell’assurdità necessaria di questa mia impotenza, aspettando il ritorno di colui che non torna, aspettando colui che, se pure tornasse, non so neppure se ancora saprei riconoscere, dopo tanto tempo, né se lui avrebbe ancora il coraggio di agire e di spezzare così le invisibili catene di questo sortilegio che mi trattiene qui, inchiodata al centro di questo labirinto di attese e di incertezze che è la mia vita ... Oreste, mio fratello, che adesso poi chissà dove sarà ... Oreste ...

LUI :    (rientrato nei ranghi, ha raccolto il grembiule da terra e lo ha di nuovo indossato, tornando nella sua posizione iniziale, alle spalle di lei) Che c’è?

LEI :    Oreste, dove sei?

LUI :    Sono qui.

LEI :    Oreste, perché non torni?

 

 

La rivolta (variante)

 

Lei seduta, al centro della scena, con gli occhiali scuri. Lui in piedi, alle sue spalle.

 

LEI :    Oreste?

LUI :    Che c’è?

LEI :    Oreste ... volevo dirti ...

LUI :    Che cosa?

LEI :    Insomma, Oreste, io non ce la faccio più!

LUI :    Come, scusa?

LEI :    Non ce la faccio più, e basta! (si toglie gli occhiali e si volta per guardarlo in faccia)

LUI :    (Leggermente allarmato) In che senso?

LEI :    Nel senso che non posso più continuare a recitare questa farsa. E’ tutto così assurdo. Ma ti rendi conto?

LUI :    (impassibile) Tragedia.

LEI :    Come?

LUI :    Questa è una tragedia, non una farsa.

LEI :    Farsa o tragedia non importa: è comunque un’assurdità! Ma insomma, ti rendi conto? Io me ne sto qui, e tu lì, a un metro di distanza, e non possiamo comunicare! Che senso ha? Me lo spieghi? Un metro, dico, un metro di distanza! Forse anche meno ... Io dico: (parodiando) «Oreste, Oreste dove sei?». E tu sei lì, a un palmo dal mio naso! Neanche fossi cieca!

LUI :    (si schiarisce la voce)

LEI :    Daccordo, daccordo. Potrei anche essere cieca. Daccordo. Ammettiamo allora che io sia cieca, e che questi occhiali scuri siano qui proprio ad indicare questo (il che, peraltro, è tutto da dimostrare): mi spieghi perché diavolo, allora, quando tu mi rispondi chiaramente, inequivocabil-mente, con la tua bella voce impostata: «Sono qui» ... mi spieghi perché diavolo io non posso sentirti, riconoscerti, abbracciarti, parlarti? Mi spieghi il perché? eh?

LUI :    (si schiarisce di nuovo la voce).

LEI :    (sbalordita, come se lui Le avesse detto qualcosa di incredibile) No, dico, non vorrai mica farmi intendere che io, oltre ad essere cieca, sia pure sorda, non è vero?!

LUI :    (c.s.)

LEI :    Daccordo, daccordo. Ammettiamo pure, per assurdo (per assurdo, dico: per assurdo!), che io sia così  disgraziata da essere cieca e sorda contempora-neamente. Mi spieghi che cosa diavolo significherebbe tutto ciò? Insomma, che senso avrebbe portare sulla scena una povera Elettra cieca e sorda e un Oreste completamente deficiente che se ne sta impalato alle sue spalle senza fare niente? Me lo spieghi? Eh? No, no. Te lo dico io che cosa significa tutto questo: nulla! Tutto questo non significa nulla! Questa “tragedia”, come la chiami tu, è un’accozzaglia di assurdità!

LUI :    (dopo qualche istante di riflessione) Sono daccordo.

LEI :    (spiazzata) Come, scusa?

LUI :    Sono daccordo con te. Com’è che dicevi? Ah, sì: (parodiandola) «Questa tragedia è un’accozzaglia di assurdità!” Sono daccordo. E ti dirò di più: non è vero che non significhi nulla. Qualcosa significa, eccome!

LEI :    (incuriosita) Che cosa?

LUI :    (infervorandosi) Significa che l’autore è un pazzo! Ecco che cosa significa! Un povero malato di mente; che andrebbe rinchiuso da qualche parte, e privato di carta, penna, matite, macchina da scrivere, computer, e qualsiasi altra cosa con cui possa sognarsi di mettersi a scrivere una farsa, una tragedia, o qualsiasi altra diavoleria del genere!

LEI:     Ma che dici! Sei pazzo?

LUI :    (pacatamente) Dico, semplicemente, che l’autore di questa tragedia è un pazzo da internare, o, se preferisci, un imbecille. Preferisci imbecille? Bene. L’autore è un perfetto imbecille.

LEI:     Guarda che sei tu.

LUI :    Come?

LEI :    L’autore, dico ... come posso spiegarmi? Il DRAM-MA-TUR-GO, ecco, lo scrittore che ha scritto tutto questo insomma: beh, quello sei tu. Proprio tu. Me lo ricordo benissimo.

LUI :    (spiazzato) Davvero?

LEI :    (annuisce) Non hai voluto neppure che ti aiutassi!

LUI :    (riprendendosi prontamente) Allora è colpa del regista! Ecco! Sì, sì, dev’essere così. Il regista di questa tragedia è un pazzo da internare! O, se preferisci, un imbecille. Preferisci imbecille? Daccordo, vada per imbecille. Il regista è un perfetto imbecille!

LEI :    (scuotendo il capo sconsolata) Sei sempre tu.

LUI :    (di nuovo spiazzato) Cosa?!

LEI :    Il regista, dico ... come posso spiegarmi? L’artefice di questo allestimento, ecco: beh, insomma, sei tu anche quello.

LUI :    Oh, cazzo! (Pausa: lui abbassa il capo, è perplesso) c’è qualcosa che non va, non capisco ... (risollevando il capo) Ascolta, ho un’idea. Ricominciamo da capo.

LEI :    Da dove?

LUI :    Da «questa tragedia è un’accozzaglia di assurdità».

LEI :    (prontamente, accalorandosi) Insomma, questa tragedia è un’accozzaglia di assurdità!

LUI :    Sono daccordo.

LEI :    Come scusa?

LUI :    Sono daccordo con te: questa tragedia è un’accozzaglia di assurdità. E ti dirò di più: non è vero che non significhi nulla. Qualcosa significa, eccome! Significa che l’autore è un pazzo! Ecco che significa! Un povero malato di mente che andrebbe rinchiuso eccetera, eccetera., eccetera ... Perché è un vero scandalo che si conceda ad un individuo così anche solo di sognarsi di scrivere una farsa, una tragedia, o qualsiasi altra diavoleria del genere!

LEI :    Ma che dici! Sei pazzo?

LUI :    Dico, semplicemente, che l’autore di questa tragedia è un pazzo da internare; oppure, se preferisci, un imbecille. Preferisci imbecille?

LEI :    Guarda che sei tu.

LUI:     Cosa?!

LEI :    L’autore, il drammaturgo, quello che ha scritto tutto questo: beh, quello sei tu ...

LUI :    Non è vero! (cambiando tono) Ecco, ci siamo: è questo il punto!

LEI :    Come «non è vero»? E’ vero sì. Me lo ricordo benissimo. No, dico, non vorrai mica negare? Niente bugie. Non era nei patti. Se adesso, per far filare via liscia la tua commedia, intendi mentire e negare l’evidenza, beh, sappi che io non ci sto.

LUI :    (pignolo) “Tragedia”, non “commedia”.

LEI :    Fa lo stesso. Io non ci sto comunque. Non mi piace mentire. Se io sono qui è per dire la verità.

LUI :    Ma è la verità!

LEI :    Ma come! Ma se ti ho visto io, con i miei occhi, mentre la scrivevi, e poi ... (esce di scena, rientra col copione in mano) sul frontespizio ci sono il tuo nome e cognome stampati a chiare lettere! Vedi? No, dico, non vorrai mica negare di chiamarti ...

LUI :    (appoggiandole la punta dell’indice sulle labbra) Ssst! Ascoltami. E’ tutta una questione di ruoli. Ammettiamo pure, per un istante, che, per un caso del tutto fortuito, l’autore di questa tragedia coincida con uno dei due interpreti ...

LEI :    Come sarebbe a dire “ammettiamo”? Ma se è così! E’ proprio così!

LUI :    (imperterrito) ... si tratterebbe comunque di una coincidenza del tutto apparente, poiché l’autore, nell’istante in cui diventa interprete, smette la maschera dell’autore per indossare quella del personaggio, per cui, da quel momento in poi, egli non è più l’autore, e neppure l’attore, a ben guardare, ma solo il personaggio: la maschera dell’autore è riposta e quella dell’attore se ne sta, per così dire, tra parentesi, o, se preferisci, in tasca. Resta solo quella del personaggio, portata così, in bella mostra sulla faccia ...

LEI :    Sarà. Ma a me sembrano tutte stronzate.

LUI :    (allibito) “Stronzate”?! Hai detto “stronzate”?! (Gli strappa il copione di mano, lo sfoglia nervosamente) Guarda che qui non c’è scritto “stronzate” ... Ecco, vedi? C’è scritto “sofismi”, non “stronzate”: “SO - FI - SMI”, è diverso da “STRON - ZA - TE” ...

LEI :    (sbuffando) Stronzate o sofismi fa lo stesso.

LUI :    (su tutte le furie) Fa lo stesso un cazzo!

LEI :    No, dico, e adesso che fai? Ti metti a fare il drammaturgo?

LUI :    (ancora adirato) E anche se fosse?

LEI :    Niente, niente ... Tanto per sapere ... Anzi, adesso che ti guardo meglio ... eh, sì, devo dire che hai proprio la faccia ... sì, non c’è alcun dubbio: hai proprio una bella faccia da drammaturgo! (lo dice come se fosse un terribile insulto).

LUI :    Ma come ...

LEI :    Comunque in questo modo non ne usciamo di certo.

LUI :    Sembrerebbe di no.

LEI :    Ci vorrebbe ben altro. Insomma, come dire? Ci vorrebbe Oreste, ecco. Un bell’Oreste di quelli classici, un eroe convinto del suo ruolo, tutto compenetrato nella sua parte, senza dubbi, senza esitazioni di nessun tipo, che faccia filar via liscia la tragedia senza intoppi. Un Oreste che arriva, fa quello che deve fare e tutto finisce per il meglio. Ecco quello che ci vorrebbe! Ma Oreste non viene. Oreste ... Oreste, dove sei?

LUI :    Sono qui.

LEI :    Oreste, perché non torni?